Grazie all’autorizzazione del gruppo Class Editori pubblichiamo il commento di Alberto Pasolini Zanelli, apparso su quotidiano Italia Oggi.
Il Medio Oriente non è tutto Califfi. Non è neanche tutto Gaza. Non ha la brutale semplicità che ci stiamo abituando, purtroppo, a riconoscere sua. Il Medio Oriente è complesso, antico quasi come il mondo. Ed è popolato tuttora da figure metà modernissime e metà leggendarie, di leggende rinnovate.
Come Sayed Kashua, palestinese di tribù, israeliano di lingua, cittadino di Gerusalemme, ora emigrato in America, non lontano da Chicago. Se ne è andato perché il suo cuore non sopportava più la Palestina e le sue guerre, le sue crudeltà, le sue paure. Se ne è andato quando dei terroristi arabi hanno scannato tre giovani ebrei o quando un paio di giovani ebrei hanno bruciato vivo un ragazzo palestinese.
Dall’America ha scritto una lettera desolata e affettuosa a un suo intimo amico ebreo, Etgar Keret, che gli ha risposto abbracciandolo e mettendo la «sua battaglia» a fianco dell’apparente diserzione del suo amico.
Sono solo due esempi, fra i più recenti, di un dialogo andato storto perché, nella sua nobiltà, contrastava troppo con l’ambiente. Di pochi giorni precedente è lo scoppio di un dramma dalle pareti giuridiche ancora più complicate. Mohammad Abu Khieder, un cittadino americano di 19 anni di nome e origini arabe che viveva fino a ieri in Israele, membro di una larga famiglia, cui appartiene un sergente della Us Army impegnato nell’evacuazione di civili americani dall’Iraq e parente dei numerosi membri della sua famiglia arrestati in Israele perché coinvolti nelle proteste per l’uccisione di un loro cugino, che era quel ragazzo arabo. Anche lui è solo un episodio, un sintomo di una situazione che, finché non darà qualche segno di speranza, continuerà a rotolare nella tensione e nella barbarie. Ma che non vi si richiude, finché ci sarà qualcuno che si distingue e protesta.
Come le migliaia di soldati israeliani che nel corso degli anni, facendo il loro dovere su tutti gli altri fronti, hanno rifiutato di servire a Gaza. Come i 43 volontari, membri di una unità di élite di lotta contro il terrorismo, che hanno manifestato la loro intenzione di uno sciopero militare per protesta contro «il comportamento del governo nei confronti dei palestinesi». Come in passato Ariel Sharon, che era costretto a «dormire con una pistola sotto il guanciale» per le minacce dei fanatici musulmani e verso la fine doveva «difendersi anche dagli ebrei». Come Isaac Rabin, che guidava Gerusalemme verso le avventure della pace e fu abbattuto dalla mano di un suo confratello che aveva paura della pace. Come Anwar Sadat, arabo d’Egitto, falcidiato per mano araba e musulmana perché sospettato dai «puri» di accettare il dialogo con gli ebrei. Come il conte Bernadotte, mediatore svedese in nome dell’Onu, ucciso perché si era spinto troppo oltre nel cercare di risparmiare alla Palestina il suo destino. E i tanti che hanno tentato, sono sopravvissuti e sono stati sconfitti. Nel ricordo va citato uno, Dan Segre: che all’apertura della prima conferenza di pace arabo-israeliana a Madrid scelse come albergo lo stesso che ospitava la delegazione palestinese.
E poi ci sono i morti che fanno più tristezza: i «caduti per equivoco». Sono tanti, anche se la memoria cita soltanto i nomi più recenti. Coloro che hanno preso la pallottola sbagliata, quel turista in vacanza a Sharm el Sheikh, ucciso su una spiaggia del Mar Rosso, in terra araba, da degli arabi che volevano uccidere un israeliano, ma lui era arabo. Arabi musulmani cittadini dello Stato ebraico. Ce ne sono centinaia di migliaia, non sono figli di immigrati né di profughi: le loro famiglie sono lì da secoli. Hanno i loro giornali e la loro lingua, i loro partiti sono rappresentati nella Knesset. Nelle proiezioni statistiche presentano, con la loro superiore fecondità, un problema per chi non può preoccuparsi che Israele rimanga anche in futuro un paese ebreo e democratico. È una delle ragioni che indusse Sharon a chiudere gli insediamenti ebraici a Gaza, ma sono ben pochi a pensare, al di fuori delle sette degli assassini, che bisognerebbe espellerli e ben pochi quelli fra loro che vorrebbero emigrare come ora Sayed Kashua.
I più patiscono i muri, ma per loro non c’è posto né dentro né fuori. Come individui hanno il diritto di voto e il dovere militare. Fanno servizio nei Territori, alcuni ci sono morti e altri si sono guadagnati delle medaglie. Alcuni sono assi dello sport, vincono trofei e vanno sul podio sotto il pennone su cui è issata la bandiera con la stella di Davide. Il sangue che ogni tanto o poco si versa in Galilea o a Gaza è solo una goccia nel mare di sofferenza di una terra che molti faticano a chiamare Santa. La loro morte non ha finora risolto nulla e aggravato ben poco. Vanno ricordati egualmente, magari con le note e i versi di una canzone che da una terra lontana è stata dedicata anni fa a quelli come loro. Si chiama Jorge Drexler, ebreo di origini tedesche, nato e che vive in Uruguay. Su esili corde e voce ha costruito la Milonga del Moro Judio. Dice il ritornello: «Yo soy un Moro Judio / que vive con los cristianos. No se’ que Dios es el mio / ni cuales son mis hermanos»: io sono un Arabo Ebreo / che vive con i cristiani. Non so chi sia il mio Dio / né quali siano i miei fratelli.