Skip to main content

Perché l’Italia di oggi somiglia alla Francia del ’76

Grazie all’autorizzazione del gruppo Class Editori pubblichiamo il commento di Alberto Pasolini Zanelli, apparso su quotidiano Italia Oggi.

Anche immersa nella sua crisi più accesa e grave dopo la conclusione della seconda guerra mondiale, l’Europa dà mostra, a chi ha abbastanza cura e malizia per guardarla nel profondo, di una paradossale unità. Nella protesta, nel vigore dei movimenti che chiamiamo antieuropei. Ce ne sono di vari tipi, girati a destra o a sinistra, nominalmente contrapposti ma legati alle radici da sentimenti e reazioni che si ritrovano attraverso le frontiere geografiche e di schieramento, nelle piazze, nelle urne e nel parlamento di Strasburgo. Può sembrarci una paradossale novità, ma è soprattutto un ritorno, sorprendente ma comprensibile. Certi drammi e certe ansie si ripetono, cambiando nome e luogo ma non sostanza. I paralleli si ripresentano.

Il primo che s’impone è fra l’Italia di oggi e la Francia del 1956. Oggi da noi (allora sull’altro versante delle Alpi) c’era una situazione oggettivamente difficile, che generava tensioni e discordie, fino a mettere in crisi non soltanto i governi ma la struttura stessa delle istituzioni. In Italia si discute oggi, fra l’altro, se sia arrivata a fine corsa la Seconda repubblica. Nella Francia di cinquantotto anni fa sappiamo che il voto per il rinnovo del parlamento segnò la fine della Quarta repubblica. La nostra emergenza di oggi è in primo luogo economica, quella dei transalpini era soprattutto politica, ma entrambe erano, sono esistenziali.

L’Italia rischia di perdere oggi i frutti del suo «miracolo economico» che proprio fra gli anni Cinquanta e Sessanta si andava rivelando al mondo. La Francia stava per perdere il suo impero. Non era la sola, soffiava ovunque in faccia all’Europa il vento della decolonizzazione, proprio come oggi la travolge la bufera della globalizzazione. L’Inghilterra, toccata per prima, aveva deciso di liquidare l’eredità imperiale nel modo più indolore e meno costoso possibile. La Francia non si era ancora rassegnata. Recenti e brucianti erano le ferite della sconfitta in Indocina e già era esploso l’incendio in Algeria. Si trattava di trovare un compromesso fra la ragione e l’orgoglio, su uno sfondo aggravato dalla guerra fredda ai suoi vertici e del debutto dell’integrazione europea.

Le formule e alleanze di governo erano entrate in crisi, nuove elezioni si imponevano e con esse il progetto di un rinnovamento e di una stabilizzazione mediante la stipulazione di nuove alleanze. Sulle urne del 1956 incombeva meno la minaccia e l’ipoteca del gollismo: il Generale si era ritirato nel suo eremo di Colombey-les-Deux-Eglises, il partito da lui fondato nel 1951, il Rassemblement populaire français, era entrato in ibernazione, l’occasione sembrava buona per restaurare un bipolarismo sia pure sullo sfondo della massiccia presenza comunista. Si formarono due schieramenti, uno di centrodestra formalmente guidato da Edgar Faure e uno di centrosinistra la cui personalità più nota era Pierre Mendès France. Era assicurato, sulla carta, un risultato netto e dunque un parlamento «governabile».

La Francia non ebbe né l’uno né l’altro, perché il suo establishment non aveva fatto i conti con gli equivalenti di Beppe Grillo e di Matteo Salvini. Si chiamava Pierre Poujade, faceva di mestiere il cartolaio, abitava nella provincia profonda, Saint-Céré, nel Dipartimento del Lot e aveva fondato da un paio d’anni un movimento di protesta soprattutto fiscale. Anche nella Francia di mezzo secolo fa era acuto il contrasto fra le pretese del Fisco e le realtà delle piccole aziende, soprattutto commercianti e artigiani in un paese ancora in buona parte rurale. I governanti erano convinti, non a torto, che i profitti dei rurali fossero più spesso minimizzati da dichiarazioni parziali rese possibili da un intreccio di piccoli scambi più o meno sotterranei su cui le autorità lanciavano la versione transalpina di Equitalia con tutti i suoi controlli.

I piccoli non lo gradivano e si sentivano, a loro volta, vittime di discriminazioni in favore delle grandi aziende, delle banche e dei poteri forti. Il cartolaio di Saint-Céré ebbe l’idea di mettere insieme tutti quei mugugni in una associazione di autodifesa che chiamò Udca, Unione per la difesa dii commercianti e artigiani. Le adesioni furono maggiori di ogni aspettativa e il movimento toccò il culmine della sua popolarità proprio nella primavera del 1956.

A questo punto, Poujade lo trasformò in partito, con la sigla Uff, Unione et fraternité française. Si presentarono alle elezioni e portarono a casa 52 deputati, uno dei quali un certo Jean-Marie Le Pen. Sissignori, proprio lui, il papà di Marine. Era abbastanza per impedire sia alla destra sia alla sinistra di conquistare una maggioranza. Sul «fronte del no» si sommarono i poujadisti, i comunisti e le ritornanti tentazioni dei gollisti. Governi fragili, dunque, di minoranza, troppo deboli per rispondere alle crisi internazionali che montavano, culminate nella fallita spedizione militare anglofrancese a Suez nel novembre di quell’anno. Poi scoppiò l’Algeria e si portò dietro il regime. Resa ingovernabile dal cartolaio, la Francia fece appello al Generale. Tornò De Gaulle. Morì la Quarta repubblica. Nacque la Quinta.


CONDIVIDI SU:

Gallerie fotografiche correlate

×

Iscriviti alla newsletter