La decisione paradossale della Corte d’assise di Palermo che consente al rappresentate legale di un capomafia di interrogare il capo dello stato è l’ultimo di una serie di atti della magistratura siciliana che hanno la conseguenza, anche se forse non avevano fin dall’inizio l’obiettivo, di infangare l’immagine della più autorevole istituzione dello stato. Giorgio Napolitano e l’avvocatura dello stato hanno più volte escluso che il presidente disponga di informazioni utili alla ricerca della verità nel procedimento sulla cosiddetta trattativa tra stato e mafia. La procura e i giudici palermitani non hanno creduto a Napolitano, non hanno accolto l’opposizione dell’avvocatura alla convocazione e quindi hanno imposto l’interrogatorio il che, a sua volta, ha aperto la strada alle manovre difensive degli imputati, a cominciare dai capomafia più noti. Così su tutti i giornali del mondo si potrà leggere del presidente della Repubblica interrogato da Totò Riina. L’ultima trovata è stata la ammissione come prova di un rapporto dei servizi segreti su minacce di attentati di vent’anni fa di cui sarebbero stati oggetto i presidenti delle assemblee parlamentari di allora, Giovanni Spadolini e appunto Napolitano. Non si capisce che cosa c’entri questo sospetto peraltro non confermato dei servizi con la presunta trattativa, ma è abbastanza chiaro che l’aver in qualche modo immesso nei dati processuali una vicenda che interessa Napolitano non nella sua veste di presidente della Repubblica apre la strada all’ampliamento incontrollabile delle tematiche su cui è consentito estendere l’interrogatorio, cavillo del quale la difesa dei mafiosi ha ovviamente approfittato, come la procura sapeva e forse addirittura voleva.
Accettando, forse per evitare di ampliare un conflitto istituzionale già aperto con la richiesta della procura di utilizzare le intercettazioni telefoniche del Quirinale, poi cassata da una sentenza della Consulta, di essere sentito al Quirinale dai pubblici ministeri palermitani, Napolitano ha commesso un errore. La sua buona volontà, tesa a evitare l’inasprimento delle tensioni, è stata strumentalizzata e utilizzata per creare la situazione imbarazzante e inconcepibile dell’interrogatorio del capo dello stato da parte del capo o dell’ex capo della mafia. In assenza di prove o riscontri delle teorie costruite sulle ricostruzioni fantasiose di «pentiti» inattendibili come Ciancimino jr, la procura cerca di trasformare il processo in una tragicommedia grottesca e a quanto pare, anche per l’evidente subalternità della Corte, sembra che ci stia riuscendo.