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Midterm, i democratici pagheranno la debolezza di Obama

Pubblichiamo un articolo dell’Ispi tratto da un focus sulle elezioni di midterm

A dispetto dei buoni dati economici – su tutti la significativa riduzione del tasso di disoccupazione, sceso sotto il 6% – il Partito Democratico sembra destinato a una pesante sconfitta alle elezioni di midterm del prossimo 4 novembre. Secondo le proiezioni, i repubblicani consolideranno ulteriormente la loro maggioranza alla Camera dei rappresentanti e nei diversi stati in cui si vota per eleggere i governatori e le assemblee legislative. Soprattutto, esiste la concreta possibilità che i democratici perdano il controllo del Senato, consegnando così l’intero Congresso nelle mani degli avversari. Dei 36 seggi senatoriali in palio, 21 sono controllati oggi dai democratici, inclusi quelli di senatori che hanno deciso di non ricandidarsi in stati tradizionalmente conservatori – come il West Virginia, il Montana o il South Dakota – destinati a tornare nelle mani del Partito Repubblicano, che ha così potuto concentrare risorse e investimenti su altre corse, in particolare in Iowa e Michigan dove due giganti del Senato, Carl Levin e Tom Harkin, hanno anch’essi deciso di non ricandidarsi.

Una maggioranza repubblicana al Congresso porrebbe ulteriori ostacoli all’azione di governo di Obama, pur non alterando in modo radicale la condizione di governo diviso – e spesso paralizzato – che sussiste ormai dal 2010. Soprattutto, inciderebbe sulle dinamiche politiche più generali, aprendo di fatto la campagna delle presidenziali 2016.

La quasi certa sconfitta dei democratici può essere spiegata in vari modi. Pesa indubbiamente l’impopolarità del presidente e la sua incapacità di mobilitare fuori dal ciclo elettorale delle presidenziali quell’ampia coalizione, anche generazionale, che tanto contribuì alle sue vittorie del 2008 e del 2012. È un’impopolarità, quella di Obama, in parte fisiologica: legata cioè alla sua condizione di presidente a termine (tant’è che nell’ultimo secolo, il solo presidente che non vide una sconfitta del suo partito alle elezioni di midterm durante il suo secondo mandato fu Bill Clinton nel 1998). Ma è un’impopolarità legata anche alla disillusione nei confronti del presidente, il cui iper-pragmatismo cauto, e spesso conservatore, ha finito per scontentare tutti: quelli che vi si sono opposti da subito in modo spesso pregiudiziale e ideologico così come coloro – e tra gli under 30 sono moltissimi – che sognavano una presidenza coraggiosa e “trasformativa”. Agiscono, inoltre, sulle dinamiche elettorali in atto fattori contingenti e in larga misura inattesi. Solo un anno fa si dava per scontato che la campagna elettorale si sarebbe giocata primariamente sulle questioni economiche e sul più grande successo legislativo di Obama, quella riforma sanitaria che i repubblicani hanno invano cercato di bloccare o far deragliare. Così invece non è stato e questo sembra penalizzare i democratici, che dei buoni dati offerti dall’economia avrebbero certo potuto beneficiare e che sono oggi meno vulnerabili rispetto a una riforma sanitaria che, a dispetto della sua faragginosità e cattiva gestione, sembra iniziare a funzionare ed essere meno osteggiata (nel solo 2014 il numero di cittadini statunitensi privi di copertura assicurativa è calato del 25%).

Al centro della scena rimangono invece le paure – comprensibili ed esagerate, fisiologiche e strumentalizzate – di un’America nella quale pesa ancora il doppio retaggio dell’11 settembre e della crisi economica del 2007-08. L’impatto della seconda continua a condizionare le percezioni di un elettorato spaventato e insicuro, poco rassicurato dai buoni dati macroeconomici e, probabilmente, ancora legato, nelle memorie e nelle speranze, a un’età d’oro di consumi e crediti facili che difficilmente potrà ritornare. La crescita del Pil al 2,5% su base annua, la riduzione della disoccupazione, inclusa quella giovanile, le eccellenti performance della borsa non si traducono in rinnovati ottimismo e fiducia, o in consenso per il governo, laddove continuano ad accompagnarsi a un ristretto accesso al credito, alla difficoltà di trovare lavori qualificati, all’uso estensivo del part-time. Lo si vede bene negli indici che misurano la fiducia dei consumatori o nei sondaggi sulle aspettative economiche, che non sono in asse, appunto, con i dati positivi dell’economia. Questa insicurezza s’intreccia con quella alimentata da un quadro internazionale tornato a farsi volubile e imprevedibile. Si potrebbe argomentare che la sicurezza degli Stati Uniti raramente sia stata priva di pericoli seri e credibili quanto oggi; che in Ucraina siano la Russia e l’Europa a rischiare di più; che il Medio Oriente sia ora assai meno importante per gli Usa. Ma questa non è la percezione dominante negli Stati Uniti. La sensazione è invece quella di un declino e di un’impotenza dell’America che molti attribuiscono alla dolosa inettitudine dell’amministrazione: alla sua mancanza di coraggio e visione. La politica estera e di sicurezza, sulla quale Obama sembrava aver costruito un solido capitale di consenso, aggiunge così un’ulteriore vulnerabilità che i repubblicani stanno sfruttando con abilità e che potrebbe contribuire anch’essa all’esito delle elezioni di midterm.

Mario Del Pero, Sciences Po, Parigi


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