Quando Horace Walpole scrisse per la prima volta l’espressione anatra zoppa, in una lettera all’amico Horatio Mann, intendeva qualcuno che non riesce a pagare i propri debiti e la battuta, infatti, era in voga alla borsa di Londra nella seconda metà del Settecento. Quel che capita adesso a Barack Obama ha molte somiglianze con il significato originario di lame duck, perché il primo presidente nero non è riuscito a pagare i debiti con le proprie origini, con le sue promesse e con un Paese che voleva uscire dal caos dell’ultimo biennio Bush, dal pantano iracheno alla più grave crisi economica dell’Occidente dagli anni ’30.
Ecco perché la sconfitta al Congresso è in parte diversa rispetto da quella subìta da suoi esimi predecessori come Ronald Reagan o Bill Clinton. Sia l’uno sia l’altro, infatti, perso il controllo sul potere legislativo, pensarono a entrare nella storia: il primo con l’apertura a Gorbaciov e la disgregazione del'”impero del male”; il secondo con la globalizzazione. Obama, invece, nei prossimi due anni sarà costretto a lottare per la propria rilevanza, scrive impietoso Peter Baker sul New York Times perché il voto è un chiaro “ripudio della sua leadership”. L’America lo ha sfiduciato, sottolinea Edward Luce sul Financial Times, e l’America è pronta non per Hillary Clinton, ma per un repubblicano. Non si sa chi, né di che tipo, se libertario come Rand Paul o conservatore, forse si comincerà a capire già nei prossimi mesi.
Intendiamoci. Obama ha fatto molto in economia (anche se il colpo di barra l’avevano già impresso i repubblicani Ben Bernanke e Hank Paulson con Bush accondiscendente), ma non abbastanza per suscitare il consenso sulle questioni domestiche che restano il cuore dello scontro. In politica estera e di sicurezza ha parlato bene, soprattutto all’inizio, però ha razzolato male, malissimo con la precipitosa e mal gestita ritirata dall’Irak. Più in generale, è venuto perdendo smalto a mano a mano che dalla retorica è passato all’azione. Resta di lui la riforma sanitaria, ardita sulla carta, ma ancora da giudicare nei fatti.
Obama saprà tornare alle origini e aiutare il partito democratico a recuperare? Secondo molti analisti, avrà più coraggio in politica estera, soprattutto in Medio oriente. Vedremo se andrà in porto l’apertura verso l’Iran con un Congresso potenzialmente contrario. Il test più importante è il ritorno in Irak con truppe di terra. Anche se lo facesse (e al momento sembra poco probabile) sarebbe comunque una vittoria dell’ala internazionalista repubblicana (non del Tea party movement). Ma a questo punto qualsiasi svolta verrebbe considerata una resa politica. Ci sono ancora due anni e certamente è presto per intonare il de profundis, ma è altrettanto inutile considerare questa débâcle una sconfitta tradizionale come quella che ha segnato molti altri presidenti.
I mass media adesso saranno indotti, da se stessi o da qualche pilota automatico, a focalizzare la loro attenzione sulla mediatissima Hillary. Invece, la storia più interessante da seguire e da raccontare sta dentro il GOP il Grand Old Party che si è scrollato di dosso l’ombra di Dubya (alias George Walker Bush), ma è diviso tra diverse anime spesso non compatibili. Probabile che l’odore del potere faccia da collante, anche se spesso aumenta le lacerazioni. Soprattutto, occorre che i repubblicani trovino una personalità forte, carismatica, nuova, possibilmente giovane e donna. Saranno stereotipi, ma la democrazia di massa li segue, ancor più i media che la manipolano. Funziona così questo sistema imperfettissimo, a parte gli altri che sono peggiori.
Stefano Cingolani