Adesso potrà uscire, ufficialmente oltre che fisicamente, da quella tomba a forma di ghigliottina in cui l’avevano rinchiuso e soprattutto esibito, dal giorno in cui era stato costretto a dimettersi da tutte le sue cariche e incarnazioni: leader politico, dittatore, faraone. Un tribunale del Cairo ha trovato ora Hosni Mubarak «innocente» per l’accusa per cui è stato lapidato per due anni e per la quale il mondo e soprattutto i suoi connazionali lo ritenevano colpevole.
Mubarak ha commesso abbondantemente abusi di potere ma non atrocità. Non merita dunque la morte né l’ergastolo. Si è macchiato, questo sì, di qualche reato del genere cui i dittatori sono spesso, ma forse distrattamente, attratti: cose come appropriazione indebita, evasione fiscale, affari poco puliti: i vantaggi collaterali che vengono, sostanzialmente sempre, dal potere assoluto. Egli merita, dunque, qualche bacchettata sulle dita, neanche tanto vigorosa.
Siamo quasi all’estremo opposto dello spettacolo volutamente feroce che aveva offerto il suo processo: quell’uomo vecchio, stanco e malato, neppure in grado di entrare con le sue gambe nell’aula in cui lo si giudicava, e allora veniva introdotto a ogni seduta dentro un involucro che conteneva tutta la sua miseria umana, una gogna per un moribondo, una scatola che illustrava la sua colpa ma soprattutto la sua condanna già scritta. Un sarcofago, appunto, a forma di ghigliottina. Risparmiandogli ciò, i giudici del «nuovo» Egitto hanno compiuto un gesto che piacerà ai «pietosi» e ai furbi, più che ai rigidi e ai vendicativi. E che era prevedibile, non essendo un esercizio di grazia sovrana bensì il riflesso giudiziario di un cambio di potere, di una «rivoluzione» che discende da quella che lo rovesciò nei giorni pieni di speranza della Primavera araba e che ora la contraddice e la conferma cosa del passato.
Era cominciata nel forum del Tahrir, per mesi centro e vetrina di una rivoluzione che avrebbe dovuto cambiare la faccia del Medio Oriente e che invece – ormai ne sono convinti anche gli ottimisti più cocciuti – ha lasciato le cose com’erano, se non addirittura peggiorandole. Le proteste sulle piazze hanno lasciato il posto alle imboscate nel deserto, agli eccidi nei villaggi, alla guerra in terra e in cielo. Le soluzioni proposte o sperate si sono vanificate una dopo l’altra: le illusioni dei laici moderati, gli entusiasmi rabbiosi dei poveri, il potere degli integralisti sotto la vecchia sigla di Fratelli musulmani. Al generale in gabbia è succeduto un generale al potere, in forma quasi dinastica: Al Sisi al posto di Mubarak, che ereditò il posto di Sadat, che era succeduto a Nasser alla guida di un paese destinato dalle realtà planetarie a un ruolo indegno del suo passato di gloria: quello di una grande nazione contesa durante la guerra fredda ma, come ora vediamo, anche dopo, fra le superpotenze rivali e i vicini aggressivi o aggrediti. La «puntata» più alta l’ha fatta finora l’America, obbligata anch’essa a mescolare la sua preferenza per gli alleati democratici con la necessità di averne di quelli «autorevoli» su cui stendere una mano protettrice.
Durante la «Primavera» ha potuto durare per qualche tempo l’illusione di una qualche concordia tra integralisti islamici e i discendenti, più o meno ideologici, del potere «laico» fondato da Nasser nel nome anche del «socialismo». Il suo delfino, Sadat, fu il solo a ottenere qualcosa nell’interesse di tutto il vicinato e per questo fu eliminato. Succede da millenni, in Egitto. Tra le novità di questi anni ci sono ulteriori informazioni sulla fine di un lontanissimo predecessore: fu assassinato con una botta alla nuca. Ma non morì sul colpo, sopravvisse per settimane in una gabbia che assomigliava già a una bara.
Pare che ad ucciderlo siano stati cospiratori arrivati dalla Siria attraverso la Palestina, due regioni su cui egli aveva cercato di estendere il potere dell’Egitto. Non aveva ancora compiuto 19 anni, ne passarono quasi 3 mila prima che venisse alla luce la sua sepoltura dentro una piramide.
Si chiamava Tutankamen. Anche la sua mummia invecchiò e dovettero «ripararla». La esportarono temporaneamente in una «clinica» per cadaveri a Parigi. Vi fu accolto con tutti gli onori cui il protocollo dà diritto a un capo di Stato straniero in visita, di solito vivo: presentat’arm, saluto alla bandiera, inni nazionali.