Nel post precedente, L’Italia oltre l’Italia, ho posto il problema di una riappropriazione della democrazia italiana da parte dei cittadini. Lo dico non nel senso della rinascita di una “società civile” onesta e perfetta, che non esiste, ma per ritrovare una sorta di responsabilità politica condivisa per la convivenza umana. L’alternativa è lasciar fare al caso, perché succeda quel che deve succedere, al di là di noi.
Il tempo delle illusioni è finito ed è venuto il tempo di disilluderci di noi, finalmente comprendendo che la vera svolta avverrà soltanto quando capiremo che il senso della parola “politico” sta prima di tutto dentro la parola “cittadino”. Non c’è qualcuno che fa politica per noi ma siamo noi che facciamo politica attraverso qualcuno che chiamiamo a rappresentarci. Se poi, creando un vuoto, lasciamo che i nostri rappresentanti vadano per i fatti loro, entra in gioco la vecchia legge della politica: i vuoti non esistono e qualcuno, prima o poi, li riempie.
Realisticamente penso che noi italiani siamo un popolo che deve ripensarsi. Dobbiamo smetterla di considerarci, a tratti, i migliori o i peggiori del mondo; siamo imperfetti e la nostra grande storia non basta a farci essere un grande popolo oggi, percorsi come siamo da tratti sensibili di mediocrità.
Penso che occorra ritrovarsi in luoghi informali, fisici o virtuali, per capire quale strada percorrere per uscire dalla prigione nell’imminenza nella quale ci siamo rinchiusi. Il problema è riscoprire insieme le difficoltà dell’essere comunità, ripensando la sovranità e la rappresentanza. Di fronte al dominante e lineare metodo mafioso occorre immaginare un metodo complesso di ritorno alla normalità della vita democratica.