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OCSE: senza uguaglianza non c’è crescita

fonte: www.oltremedianews.it

In una recente pubblicazione dal titolo “Focus on Inequality and Growth” l’Ocse, in controtendenza con la linea economica adottata a livello europeo di cui si è spesso fatto promotore, ha sottolineato come le crescenti disuguaglianze abbiano inciso negativamente sulla crescita di molte economie negli ultimi trent’anni. Oggi infatti il 10% della popolazione più ricca guadagna 9,5 volte di più del 10% più povero, mentre negli anni ’80 il rapporto era di 7 a 1. Lo studio inoltre evidenzia che, dividendo la popolazione dei paesi Ocse in dieci fasce di reddito, l’ultimo 40% della piramide è nettamente più povero rispetto al 1980 e ciò ha avuto un impatto particolarmente negativo anche in termini di crescita macroeconomica dei paesi.

Rispetto al 1980, l’indice di Gini (una statistica compresa tra 0 e 1 che misura il grado di disuguaglianza all’interno di un paese) è aumentato in media del 3% in tutta la zona Ocse con picchi del 5% in Israele, Nuova Zelanda, Usa e Finlandia. E’ stato stimato che un aumento di tre punti del Gini ha ridotto ogni anno dello 0,35% il Pil dei singoli paesi e, se la matematica non ci inganna, in 25 anni la perdita complessiva di output è stata di circa l’8,5%. Più dettagliatamente, la crescente disuguaglianza ha fatto contrarre il Pil di molti Stati in una misura che oscilla tra il 6% ed il 10% (in ordine decrescente: Messico e Nuova Zelanda 10%, Regno Unito , Finlandia e Norvegia 9%, Usa, Svezia e tra il 6% ed il 7%). I paesi come la Francia, la Spagna e l’Irlanda, che prima della crisi hanno visto ridurre le disuguaglianze al loro interno, hanno invece sperimentato un contributo positivo in termini di Pil.

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L’Italia dal 1985 al 2005, grazie alla dinamica delle disuguaglianze crescenti, ha bruciato circa l’8% del suo Pil.

Il principale canale che lega le disuguaglianze e la contrazione del prodotto nazionale è quello della scuola: dagli anni ’80 ad oggi si nota che il titolo di studio dei genitori ha influenzato in maniera crescente la formazione dei figli. Parafrasando la statistica elaborata dall’Ocse ci si accorge che, in media, i figli delle famiglie povere vedono peggiorare la loro condizione di generazione in generazione tanto rispetto ai coetanei più ricchi quanto ai propri genitori. In maniera ancora più esplicita, ciò significa la fine della mobilità sociale e della meritocrazia in favore di parametri puramente censitari.

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L’immagine mostra come, all’aumentare del coefficiente di Gini, i risultati nei test matematici dei percentili più poveri della popolazione siano andati diminuendo, mentre quelli dei rampolli di fascia medio-alta sono rimasti sostanzialmente invariati rispetto a quello dei padri.

Nel box conclusivo della pubblicazione, eloquentemente chiamato “key findings”, l’Ocse scrive in grassetto “Tackling inequality through tax and transfer policies does not harm growth, provided these policies are well designed and implemented”. Non esiste dunque alcun trade-off (ndr. Rapporto inverso tra due variabili. Ad esempio all’aumentare di X diminuisce Y o viceversa) tra crescita economica e politiche sociali volte alla riduzione della disuguaglianza. La redistribuzione della ricchezza deve avvenire in favore delle famiglie e dei giovani, dando particolare importanza alla loro emancipazione culturale e alla loro formazione.

Capire quali siano le scelte di politica sociale migliori per raggiungere tale obiettivo è una questione estremamente complessa e fortemente condizionata dall’ideologia che muove la mano del legislatore. Le uniche due certezze che emergono dalla ricerca possono essere sintetizzate come segue: in primo luogo non basta una riforma superficiale del mondo del sapere per risolvere la situazione (chissà se il Miur prima di scrivere i dettagli applicativi de “la buona scuola” darà un’occhiata alla pubblicazione dell’Ocse) ed in secondo luogo, dopo trent’anni di politiche liberiste, è forse arrivato il momento di pensare qualcos’altro. Se è davvero in atto un ripensamento generale della trickle-down economy e dell’individualismo come metodologia di approccio alla politica economica, noi consigliamo di ripartire dall’articolo tre della nostra Costituzione, che ci prendiamo la briga di riportare testualmente e, seppur solo virtualmente, leggere assieme a voi a grandi respiri.

“Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.

E` compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.

E non avevano nemmeno letto il report dell’Ocse.

link dello studio Ocse: http://www.oecd.org/els/soc/Focus-Inequality-and-Growth-2014.pdf


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