Più 5% nel terzo trimestre dell’anno, da luglio a settembre. E’ l’aumento più consistente registrato dall’estate 2003 per l’economia americana: un balzo che ha scavalcato il già ottimo 3,9% atteso dal governo. Wall Street ha reagito fissando un nuovo record storico, l’indice Dow Jones ha superato i 18 mila punti, consolidando il rialzo in corso da diverse settimane.
I NUMERI
I dati diffusi ieri dal Dipartimento del commercio americano vanno però decodificati, almeno osservando il trend dell’economia nel 2014, secondo il Corriere. L’anno era cominciato male, con la riduzione del 2,1% del prodotto interno lordo (Pil). L’inversione, spettacolare, inizia nel secondo trimestre, più 4,6%, e prosegue ora nel terzo. Da gennaio a settembre, aggiustando i calcoli tenendo conto dell’inflazione, il Pil cresce del 2,7%. Nell’intero 2013, il progresso aveva raggiunto il 3,1%.
IL RUOLO DEI CONSUMI
Analizza Giuseppe Lastrico, strategist dei fondi Anthill: “Driver è il consumer spending, passato a +3.2% da +2.2% della precedente stima. Ma anche gli investimenti sono migliorati (a +7.7% da +6.2%). Il fatto che il grosso della crescita venga dai servizi, settore meno volatile dei beni di consumo depone bene a favore del prossimo trimestre. Diverse case alzeranno le stime per il trimestre in corso sulla base di questo dato”.
IL PROPELLENTE DELLA SPESA
Da dove arrivano queste risorse per i consumi? Scrive Giuseppe Sarcina del Corriere della Sera: “Innanzitutto dal crollo dei prezzi del petrolio: i 60 dollari al barile si sono tradotti in consistenti sconti per carburanti e riscaldamento. La benzina costa sui 2 dollari al gallone (3,7 litri), la metà rispetto al 2008, l’anno della grande crisi. I cittadini si sono ritrovati più denaro in tasca e sono scattati come una molla compressa per troppo tempo, riversandosi nei centri commerciali, acquistando beni per la casa, tablet, viaggi”. Eppure con il sequester della spesa pubblica si pensava che potessero arrivare tempi cupi, ricorda oggi Oscar Giannino sul Messaggero: il congelamento delle uscite o la loro riduzione per effetto dell’aumento dell’indebitamento faceva presagire il peggio: “Nel 2013 è accaduto – scrive Giannino – statalisti e keynesiani dissero che in quel modo l’America si sarebbe piantata. Invece grazie a secche riduzioni di spese automatiche il deficit federale è sceso da oltre l’11% a meno del 5%, e oggi scenderà ancora, grazie alla ripresa travolgente del Pil che è seguita ai tagli di spesa senza aumenti di tasse“.
LA DISOCCUPAZIONE CHE CALA
Un’altra fonte di reddito è arrivata dal calo della disoccupazione, scesa in 9 mesi dal 6,5% al 5,8%. Più americani al lavoro, in media più di 200 mila da gennaio a settembre, quindi più salari, più consumi. Obama non si stanca di ripetere che ha creato posti di lavoro aggiuntivi per 57 mesi consecutivi con la disoccupazione che è ormai scesa dall’8 al 5,8 per cento. Col deficit pubblico che, intanto, è stato dimezzato. Attenzione, scrive Massimo Gaggi, editorialista del Corriere della Sera: “Anche questi numeri vanno presi con cautela: dentro ci sono molti lavori precari o part time. La flessibilità degli impieghi rende più dinamico il sistema produttivo, ma ha anche i suoi costi sociali. Se il presidente americano fatica a convincere il suo popolo (che lo ha sonoramente punito alle recenti elezioni di mid term ) di aver fatto un buon lavoro nonostante la sua pagella economica sia da dieci e lode se confrontata con quelle di Hollande, Renzi e, a ben vedere, anche Angela Merkel, non sorprende che molti anche da noi storcano il naso davanti alla «ricetta americana»”.
IL RUOLO DELLE POLITICHE MONETARIE
Per tutto il 2014 la Fed di Janet Yellen ha mantenuto la linea del tasso d’interesse a zero anche quando era stato raggiunto l’obiettivo fissato al 6,5% sul fronte disoccupazione. Il dollaro relativamente debole ha favorito le esportazioni (più 4,9% nel trimestre) e soprattutto gli investimenti delle imprese (più 8,9%) che hanno accompagnato il ritorno del consumo e forse del consumismo americano.
IL MIX MONETA E DEFICIT
Scrive Federico Rampini, editorialista del quotidiano la Repubblica: “Obama a suo tempo lasciò che il rapporto deficit/Pil esplodesse fino a quota 12%, il quadruplo dei limiti imposti dal patto di stabilità europeo. Oggi il deficit/Pil negli Usa è ridisceso al 2,5%. Non a furia di tagli ma grazie alla crescita. Altra differenza chiave è nelle politiche monetarie. La Federal Reserve ha creato liquidità comprando bond fino a 4.500 miliardi di dollari. Ha fatto in modo che il credito a buon mercato arrivasse all’economia reale, famiglie e imprese, invece di essere sequestrato dalle banche come avviene in Italia. Ha svalutato il dollaro a oltranza, finché ce n’era bisogno. Ora che l’emergenza è finita, la Fed torna alla normalità. E il dollaro risale, per nostra fortuna”.
CONFRONTO USA-UE
Invece l’Europa, per i vincoli dei trattati e per la strategia teutonica, non può permettersi queste politiche espansive all’americana. Dice Alberto Gallo, economista a capo della divisione Macro credit research di Royal Bank of Scotland: “Anche con più stimolo monetario da parte della Bce, la spesa fiscale rimane contenuta e il deficit intorno al 3%. Quando la Fed iniziò il suo Qe (quantitative easing, l’acquisto di obbligazioni private ma anche governative, ndr), già più efficiente per la trasmissione diretta sui mercati finanziari, il deficit americano era oltre il 10%”.
TUTTO ORO QUELLO CHE LUCCICA?
Scrive Gaggi sul Corriere: “Gli Stati Uniti non sono di certo un modello da imitare in tutto e per tutto: godono di vantaggi economici, particolarmente in campo energetico (i nuovi giacimenti di shale gas), che l’Europa non può replicare. E hanno commesso errori che noi abbiamo evitato, come nel caso della rinuncia a investire in infrastrutture ferroviarie: col risultato che oggi, viaggiando da New York a Washington su pendolini traballanti, gli americani invidiano i TGV francesi e anche i nostri Frecciarossa (altro che No Tav)”.