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American Sniper – Ovvero: come ho interpretato Eastwood

Sono giorni che mi aggroviglio le cervella. Non è facile parlare dell’ultimo prodotto cinematografico di Clint Eastwood ed in realtà, per quel che mi compete, una recensione canonica non è proprio quello a cui aspiro. Non sono uno studente di cinematografia, spesso ho bisogno di farmi spiegare il significato di qualche scena e, poi, la tendenza “cinefila” dei miei coetanei, tanto per non offenderli, mi annoia da morire. Lo slancio energico verso l’arte, per quanto mi appaghi, non mi cambierà la vita. Ahimè.

American Sniper, la trasposizione cinematografia della vita di Chris Kyle – uno dei migliori cecchini dei Navy Seals – è stata un pugno ben assestato nello stomaco e non certo perché è un brutto film. Durante le serate iperglicemiche delle vacanze natalizie, trovarsi dinnanzi ad una così ambigua pellicola è fortemente destabilizzante. Le prime scene, tanto per chiarire, mi hanno fatto sobbalzare pensando “guarda un po’ te Clint, mi sta bene essere repubblicani ma sino a questo punto…”.

Non è mai chiara la linea di demarcazione, il limite ultimo, entro il quale considerare il tutto. Una gran bella analisi oggettiva sul costo reale che la guerra in Iraq ha rappresentato sul capitale umano investito – da entrambi i fronti – o un mero auto-filisteismo all’americana ? E’ difficile comprendere, per intenderci, se l’aver fatto fuori 160 persone diventi un motivo di vanto o meno. Qui Eastwood è stato bravo. Il film, penso, sia entrambe le cose. Da un lato la distruzione dell’io-prometeico che si lancia a testa bassa in una storia più grande di tutti noi messi insieme, dall’altra il bonario ed accondiscendente sguardo del regista che non riesce, tuttavia, a pensar male di quei ragazzi che per le più svariate ragioni hanno deciso di partire per il fronte.

Allora, dirà qualcuno, cosa vuole comunicare il buon vecchio Clint? Forse l’atteggiamento americano che considera il ricorso all’apparato bellico quasi sempre necessario affinché venga stabilito e mantenuto “l’ordine mondiale”, così da proteggere interesse economici e civili nel modo più facilmente intuibile. Anche quando la legittimità internazionale condivisa è assente. Chris Kyle, dopo lo spartiacque abominevole che è stato l’11 Settembre, viene inghiottito da dalla politica della ricerca di “un nemico da compattare per il ripristino della sicurezza mondiale, e quindi del suo territorio e della sua popolazione”. Sono però, al netto di questa analisi facilmente intuibile, cambiate la carte in tavola. Ad una moltiplicazione degli impieghi e del ruolo che le guerre hanno assunto nelle risoluzioni politiche, il capitale umano e militare ha subito quelle che definiremo “perdite di riferimenti”, trovandosi, oggi più di ieri, a muoversi in contesti di maggiore incertezza dove la polivalenza delle missioni richiede continuamente, morbosamente, strenuamente, adattamento e riorganizzazione della propria identità. Ci si ritrova, e dal film emerge chiaramente, a vivere situazioni contrastanti dove la possibilità di uccidere corre parallelamente alla possibilità di venire uccisi. Tutte queste operazioni che avvengono nel più profondo compartimento neurale del nostro cervello, sono il frutto di una continua distruzione/auto-distruzione e ricostruzione dell’individuo. Impensabile immagine che si ritorni quelli di un tempo. Scatta qualcosa, a torto o ragione, che finirà per cambiarci definitivamente.

Le ultime immagini del film sono di repertorio. Il corteo funebre di Kyle che attraversa gli Stati Uniti. Ecco il rispetto che muove Eastwood verso i giovani americani arruolati. Attraverso un processo socioculturale, nel quale il linguaggio visivo assume carattere fondamentale, la memoria collettiva è essenzialmente una ricostruzione volutamente parziale e selettiva in funzione di interessi chiari e definiti. Non più reviviscenza, ma elaborazione di miti, ingiustizie e sconfitte che vengono ridefinite.

Le conseguenze di tutto ciò non viene mai chiarito. Ennio Morricone firma il “Silenzio Fuori Ordinanza” che accompagna Chris, vittima nazionale di quell’esaltazione dei conflitti sociali e degli stereotipi negativi Noi-Altri. Noi siamo il bene, gli Altri il male. Le mobilitazioni contro lo stereotipo esterno sono il meccanismo quasi automatico, soprattutto se in mano a deviate èlites politiche.

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