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Che cosa può fare davvero la Bce per l’economia europea

L’economia europea non cresce, mentre i prezzi al consumo tendono a ridursi, nonostante ogni azione fin qui adottata dalla Bce per sostenere la ripresa. I tassi di riferimento sono stati portati scesi ai livelli più bassi mai registrati: dal 10 settembre scorso, il tasso fisso è stato portato allo 0,05% mentre il rifinanziamento marginale è arrivato allo 0,30%. La penalizzazione dei depositi ulteriori rispetto alla riserva obbligatoria è stata inasprita ulteriormente, fissandola al -0,2%. Le iniziative non convenzionali, rappresentate dalle T-Ltro a quattro anni volte a fornire il sistema bancario fino a 400 miliardi di euro di liquidità ulteriore da destinare al credito aggiuntivo, hanno portato complessivamente alla erogazione di appena 130 miliardi di euro nelle due aste fin qui effettuate. Nel frattempo, il sistema bancario europeo ha rimborsato prima delle scadenze ben 720 miliardi della liquidità ottenuta con le Ltro effettuate tra la fine del 2012 e l’inizio del 2013.

Dal punto di vista del credito bancario totale, dato che comprende quello erogato sia al settore privato dell’economia sia alle Pubbliche amministrazioni, l’Eurozona soffre di una progressiva contrazione dei volumi sin dal mese di marzo del 2012, quando toccò la vetta di 16.530 miliardi di euro: a novembre scorso, si era ridotto a 16.072 miliardi (-458 miliardi). Il credito ai privati, in particolare, era sceso già da prima, passando dai 13.348 miliardi del settembre 2011 ai 12.534 miliardi di novembre scorso (-814 miliardi). Il maggior credito alle Pa è cresciuto invece di 263 miliardi di euro, passando dai 3.256 miliardi di marzo 2012 ai 3.538 miliardi di novembre scorso.

Il deleveraging del debito privato ha portato l’Eurozona alla recessione, ripercorrendo esattamente il paradigma illustrato già nel 1933 da Irving Fischer, secondo cui la Grande Recessione americana del ’29 era stata causata dalla debt-deflation (sinonimo di credit-crunch o deleveraging).
Le misure di consolidamento fiscale da una parte e la contrazione del credito dall’altra, hanno stretto l’economia reale europea in una morsa mortale: la formazione del capitale fisso nell’Eurozona è scesa dai 1.990 miliardi di euro del 2008 ai 1.693 miliardi del 2013 (- 297 miliardi), mentre i disoccupati sono aumentati di 2,5 milioni, passando dall’11,6% nel maggio del 2007 al 18,4% di novembre scorso. Non vi è alcun dubbio, poi, che l’esercizio straordinario di vigilanza prudenziale svolto dalla Bce nel corso del 2014 sulle banche di rilievo sistemico (il Comprehensive assessment fondato sulla Asset quality rewiew e poi sugli Stress test che hanno simulato gli effetti sul capitale degli scenari più avversi), così come la introduzione di più elevati coefficienti di capitale (Cet1) sulla base degli asset pesati in base al rischio (Rwa) abbiano ulteriormente disincentivato la erogazione di nuovi impieghi creditizi.

Il credito all’economia privata dell’Eurozona si è contratto, con effetti visibili sulla formazione di capitale fisso e sulla disoccupazione, senza che abbiano avuto successo né le misure tradizionali di politica monetaria rappresentate dalla riduzione dei tassi, né quelle meno convenzionali rappresentate prima dalle Ltro e di recente dalle T-Ltro. Il sistema economico non ha reagito alla riduzione dei tassi di riferimento, che in teoria avrebbe dovuto ridurre la propensione al risparmio ed aumentare quella al consumo, e comunque incentivare gli investimenti per via del minor costo del credito. Il sistema bancario europeo, a sua volta. non ha acceduto con l’ampiezza attesa alla liquidità offertagli per erogare nuovo credito. Ci si interroga, ora, sugli effetti di un consistente Qe da parte della Bce.

E’ necessario trovare le ragioni profonde di quanto sta accadendo, i motivi per cui la politica monetaria nell’Eurozona non è stata in grado di riattivare il circuito virtuoso credito –investimenti – crescita economica – nuova occupazione. C’è innanzitutto il comportamento rinunciatario dei consumatori, che risentono ancora dell’effetto di “impoverimento” indotto dalla caduta dei corsi borsistici rispetto ai livelli pre-crisi ed in Italia anche dalla tassazione patrimoniale che ha colpito gli immobili. Finchè non saranno state recuperate le perdite sui valori mobiliari ed immobiliari, si continuerà a risparmiare. Non è casuale che la Fed, nell’ambito del Qe3, abbia acquistato Abs immobiliari al fine di ricostituire le disponibilità degli operatori finanziari necessarie a far riprendere quanto prima il ciclo del credito. Solo quando i valori immobiliari saranno tornati al livello precedente, quello al quale erano stati erogati e garantiti i mutui, le famiglie debitrici e le istituzioni finanziarie si sentiranno finalmente al sicuro.

In secondo luogo, essendo stata immiserita la remunerazione dei depositi bancari per via della riduzione dei tassi sui prestiti, i risparmiatori hanno investito altrimenti. Di converso, la pressione esercitata dalle banche sui buoni debitori affinchè rientrassero dalle esposizioni si è coniugata con la tendenza a ridurre i depositi: si è avvitato il ciclo della debt-deflation che porta alla recessione, descritto da Irving.
C’è poi una variante sistemica, l’adozione della “banca universale”, che ha ridotto ulteriormente l’efficacia delle politiche monetarie: a parità di ogni altra condizione, oggi il sistema bancario può scegliere liberamente come impiegare la raccolta, erogando credito o investendo in asset finanziari. Di fronte ad una raccolta sempre meno consistente e più liquida, le banche hanno prudentemente preferito investire in titoli negoziati sul mercato e quindi facilmente smobilizzabili, piuttosto che impegnarsi nella erogazione di crediti a medio-lungo termine.

Anche la liquidità messa a disposizione delle banche centrali sarebbe utilizzabile per operare sui mercati finanziari: per questo motivo la Banca di Inghilterra con il programma Funding for lending e la Bce con le T-Ltro l’hanno vincolata alla erogazione di credito. Infine, ci sono le asimmetrie tra impieghi creditizi e finanziari che sono state introdotte di recente nella valutazione del capitale bancario: non c’è un limite alla leva, al rapporto tra capitale ed impieghi, ma un meccanismo che sfavorisce il credito tradizionale.
In conclusione, pur volendo perseguire l’obiettivo di un credito di migliore qualità e banche più capitalizzate, si è giunti al risultato opposto: meno credito e più finanza; minori depositi bancari e minori investimenti fissi lordi. Il risparmio si finanziarizza, privilegiando il trading.

Le aziende di credito, nel regime bancario tradizionale, sia quello americano risalente al Glass-Steagall Act del 1933 sia quello italiano definito dalla legge bancaria del 1936-1938, erano le uniche istituzioni che potevano beneficiare della possibilità di accedere alla Banca centrale-prestatore di ultima istanza, ma avevano correlativamente il vincolo dell’impiego nel credito commerciale. Nel sistema odierno, fondato sulla banca universale, gli impieghi sono assolutamente liberi, con le negative conseguenze già ben note: se la Germania ha dovuto spendere 247 miliardi di euro per i salvataggi bancari, è per via degli asset tossici in cui erano stati impiegati i depositi.

Il Qe si avvicina, ma per la Bce il rischio è di mettere la nuova liquidità in secchio bucato: invece di rimanere a disposizione per il credito all’economia, potrebbe uscire dai bilanci delle banche per essere impiegata in asset che non hanno niente a che vedere con i nuovi investimenti, né con la modernizzazione del sistema produttivo europeo.

Occorre contrastare la debt-deflation, facendo arrivare nuove risorse all’economia: si dovrebbero comprare titoli pubblici detenuti dalle banche solo a fronte di nuovi investimenti, oppure obbligazioni emesse dalla Bei per finanziarli. Per tornare ai livelli pre-crisi, l’eurozona deve recuperare 840 miliardi di credito all’economia ed un gap di 297 miliardi nella formazione del capitale fisso. Il vero ostacolo alla politica monetaria è il modello della “banca universale”: ha affossato l’intero sistema finanziario occidentale ed ora non ha più convenienza ad investire nell’economia reale. Per andare avanti, stavolta dobbiamo tornare indietro.

Ecco perché Draghi deve fare più il giapponese che l’americano…



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