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Perché pure Obama si è un po’ innamorato di Piketty

Ultima in ordine di tempo arriva Oxfam, nota per le sue battaglie contro BigPharma e a favore della liberalizzazione dei brevetti: i ricchi sono sempre più ricchi, l’un per cento della popolazione s’avvia a controllare oltre metà della ricchezza mondiale, proclama l’organizzazione citando dati del Crédit Suisse.

A Davos i rappresentanti di quell’un per cento si preparano all’autodafé esponendosi al ludibrio generale. Intanto Barack Obama, capo della nazione più opulenta del mondo, lancerà nel suo discorso sullo stato dell’Unione la proposta che dovrebbe segnare gli ultimi due anni della sua presidenza: una tassa sui ricchi per aiutare la middle class, la più grande operazione redistributiva dai tempi della Great Society di Lyndon Johnson. Persino i repubblicani, strenui sostenitori della teoria dello sgocciolamento (cioè che bisogna ridurre le tasse ai ricchi perché i benefici indotti si spalmano poi sul resto della società) si arrendono e sono pronti a discuterne.

Dunque, Thomas Piketty ha vinto? L’oscuro economista francese ha avuto lo stesso impatto nel cambiare il senso comune che John Maynard Keynes ebbe negli anni ’30 o Milton Friedman negli anni ’70? Chapeau. Con un libro lungo, talvolta prolisso, che pochi hanno letto, ma del quale tutti hanno straparlato, ottiene più risultati lui dell’internazionale sindacale. Il lavoro di Piketty è da apprezzare, sia chiaro, se non altro perché ha avuto l’ardire di scrivere una sorta di storia del capitale (quindi non solo denaro, ma patrimoni, terre, castelli, fabbriche e quant’altro) che nemmeno Karl Marx. E’ vero, economisti saccenti e invidiosi hanno dimostrato che molti dei dati utilizzati sono approssimativi se non proprio sbagliati. Ma honi soit qui mal y pense.

La tesi centrale del pikettysmo è che nelle fasi storiche (come i Trenta gloriosi dal 1945 al 1976) in cui la ricchezza è più distribuita, la crescita si fa più robusta. E viceversa. Gli sviluppisti sostengono che la sequenza è esattamente opposta: quando il reddito nazionale sale perché aumenta la produttività dei fattori (ancor più se insieme a innovazioni tecnologiche dirompenti), allora il reddito pro capite cresce e viene redistribuito con maggiore equità, intanto perché si realizza la piena occupazione e poi perché i lavoratori hanno più potere contrattuale e riescono ad aumentare la loro quota di valore aggiunto rispetto a quella del capitale. Quanto alla globalizzazione, bestia nera di Oxfam e compagnia, ha fatto uscire dalla miseria miliardi di uomini, basti guardare a quel che è successo in Asia.

Difficile dire se siamo in pieno dilemma dell’uovo e della gallina. Il Fondo monetario, per esempio, in un serie di studi condotti anni fa, sostiene che il cuore della faccenda sta nell’istruzione e il vero gap è proprio questo: chi è in sintonia con la società dell’informazione guadagna molto di più sia rispetto ad altre categorie produttive sia degli stessi redditieri o di chi vive tagliando cedole. Ma anche questa analisi è oggetto di feroci discussioni. Sono cose troppo complicate che è meglio lasciare alle fini menti teoriche. La cosa certa, oggi come oggi, è che le diseguaglianze sono insostenibili.

Nessuno può mettere in dubbio che in società stagnanti se non declinanti, prive di vitalità e povere di progetti, come quella europea, o attraversate da tumultuose trasformazioni come quella nordamericana, quando il vecchio mondo muore e il nuovo non è ancora nato, le diseguaglianze economiche e le ingiustizie sociali provocano un crollo del consenso. Gli economisti possono interpretare i dati in molti modi, ma i politici sanno che in queste condizioni non si governa. E’ vero persino nei regimi autocratici (che infatti molto spesso cercano di essere paternalisti), figuriamoci in quelli democratici.

Dunque il cambio di paradigma è in corso per ragioni politiche più che di teoria economica. E senza dubbio è un bene. Anche perché oggi il McWorld non è sfidato dai No global, ma dalla Jihad; abbiamo di fronte un avversario, l’islamismo radicale, che si presenta come il difensore dei dannati della terra (anche se alle spalle ha gli sceicchi più ricchi del mondo). E l’arma migliore dell’Occidente resta la sua capacità di esplorare nuovi universi, di inventare, di innovare. Per questo c’è bisogno di una società articolata, non spaccata in due, dinamica e aperta con una scala sociale sempre più mobile. Anche i mercatisti duri e puri, gli schumpeteriani ortodossi, i nipotini di Hayek, insomma, dovrebbero accantonare diatribe scolastiche e mettere le vele al vento della giustizia come equità.

Stefano Cingolani


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