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Perché il calo del petrolio e dell’euro non saranno un Viagra per l’Italia

Negli ultimi sei mesi il cambio dell’euro si è deprezzato quasi del 15% verso il dollaro. L’accelerazione è stata particolarmente forte nelle ultime settimane quando la moneta unica è scesa in area 1,15 dollari per un euro. L’aggiustamento non pare concluso, perché il cambio target è quello della parità già nei prossimi mesi. Significa che la moneta unica può deprezzarsi di un ulteriore 13%.

Questi valori sono stati già assorbiti dai modelli econometrici che stimano la crescita del pil italiano nel 2015 e per questa ragione la revisione al ribasso dello stesso pil da parte di Bankitalia dovrebbe preoccupare. Secondo la banca centrale italiana nell’anno in corso la ricchezza del Belpaese crescerà solo dello 0,4% nonostante il crollo del costo delle materie energetiche e il deprezzamento dell’euro. Significa, detto più esplicitamente, che l’economia italiana non riesce a ripartire neppure quando dei veri e propri shock esterni positivi le regalano dei goal a porta vuota. Perché?

Sicuramente perché, come scriviamo da mesi, la politica economica del duo Renzi-Padoan è troppo poco focalizzata su un solo target, piena zeppa come è di ogni tipo di microintervento, ovviamente non risolutivo della crisi. Ma, soprattutto, perché le riforme vere, quelle che farebbero ripartire il pil, sono o semplici tentativi che limitano il loro campo di azione a pochi soggetti, come il Jobs Act che vale solo per i neoassunti del settore privato, oppure un rinvio sine die, come la spending review sulla spesa corrente della pubblica amministrazione o il taglio deciso del cuneo fiscale per riportarlo su valori europei.

Finora è stato facile fare il gioco dello scarica barile delle responsabilità sull’euro: la moneta unica è troppo sopravvalutata e penalizza la crescita. Ora, con i tassi di interesse che segnano ogni settimana un nuovo minimo storico e con il cambio dell’euro tornato ai suoi valori del 2003 sul dollaro, la mancata crescita del pil italiano diventata un fatto esclusivamente endogeno. L’Italia ha preferito, ancora una volta, perfino nella sua peggiore recessione repubblicana privilegiare l’aggiustamento fiscale a scapito di quello sui costi della pubblica amministrazione che sarebbe invece stato necessario per ridare competitività. Da Monti in poi 2/3 di maggiori imposte e 1/3, forse, di tagli alla spesa.

I risultati si vedono ora con tutta la loro durezza: il pil rimane anemico e al palo mentre la disoccupazione continua ad aumentare. Difficile che il mercato si sbagli ed oggi ciò che ci sta comunicando è che il problema della competitività italiana non è l’euro ma le mancate riforme. Il pil italiano resta nell’intorno dello zero anche con un minieuro che regala tassi di interesse supermini. Indi, senza vere riforme sarà stagnazione secolare.

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