I Repubblicani ricorderanno il discorso sullo Stato dell’Unione del 2015 del presidente Barack Obama per le numerose minacce di veto, ivi contenute, contro la legislazione per fare retromarcia sull’Affordable Care Act, per riavviare l’espulsione degli immigrati clandestini, per indebolire la regolamentazione bancaria, o per imporre nuove sanzioni contro l’Iran, mentre i negoziati sono ancora in corso. Anche i Democratici ricorderanno questi impegni, ma si concentreranno anche sulla promessa del Presidente di promuovere una crescita più equa, di creare nuovi posti di lavoro, di fornire un accesso più agevole ai servizi per l’infanzia, di ridurre il costo dell’istruzione superiore e di proteggere l’ambiente.
Questi dibattiti sono interessanti per i non-americani, ma sono meno importanti rispetto agli altri messaggi che Obama ha cercato di trasmettere circa la propria visione per la leadership americana. Questo messaggio è un po’ diverso dalla nozione di leadership che Obama ha annunciato alla vigilia dell’intervento in Libia, quando ha parlato al popolo americano il 28 marzo 2011. Il presidente americano ha ancora interesse nella costruzione di coalizioni e nella cooperazione con gli alleati, ma è più attento alla necessità degli Stati Uniti di guidare in testa, anziché nelle retrovie. Egli è ancora più convinto che gli Stati Uniti dovrebbero cercare di sfruttare la diplomazia piuttosto che fare affidamento sulla capacità militare schiacciante o sulle loro “capacità uniche”. Inoltre desidera catalizzare l’attenzione sui valori americani che non rappresentano soltanto un buon esempio per il resto del mondo, ma anche il modo migliore per mantenere l’America al sicuro sul versante domestico.
Il grande interrogativo è quanto può convincere un Congresso controllato dai Repubblicani a sostenere questo programma. Ciò richiederà che il Congresso non solo consenta lo spazio per il presidente di concludere i negoziati con l’Iran e fornisca il supporto necessario per la chiusura del centro di detenzione di Guantanamo, ma il successo del programma dipenderà dal fatto che il Congresso accetti o meno di autorizzare l’uso della forza contro l’Isis, sostenga l’accordo sui cambiamenti climatici del Presidente con la Cina, e conceda all’amministrazione Obama l’autorità e la promozione commerciale necessarie per completare la partnership trans-pacifica, il Tpp, e quella per il commercio e gli investimenti transatlantici, il Ttip. Queste sono le iniziative che le persone al di fuori degli Stati Uniti vorranno veder progredire. Questo è un settore in cui l’amministrazione Obama dovrebbe essere potenzialmente in grado di trovare la base per un sostegno da tutti i partiti – in particolare per ciò che riguarda la liberalizzazione degli scambi.
Il problema è che i due dibattiti si sovrappongono. La polarizzazione tra Repubblicani e Democratici sulle questioni nazionali tende a complicare qualsiasi possibilità di azione bipartisan verso l’esterno. Questa non è certo una considerazione originale. La politica interna gioca sempre un ruolo nella politica estera. Ciò che colpisce è la rapidità in ciò è venuto a galla una volta che Obama ha terminato il suo address. I Repubblicani hanno criticato il discorso definendolo un’occasione mancata; i Democratici lo hanno strombazzato come un grido di battaglia per la prossima corsa presidenziale (e come un punto di riferimento necessario per un futuro candidato democratico). La prospettiva di principio, di collaborazione, e di leadership americana “intelligente” è stata immediatamente ridimensionata.
Tuttavia, c’è ancora molto che l’amministrazione Obama può realizzare sia in termini comerciali e più in generale nei rapporti con Cina, Russia e Medio Oriente. Il trucco è che se Obama non può ottenere cooperazione da parte del Congresso, dovrà contare più pesantemente sugli alleati dell’America in Europa. Il regime delle sanzioni nei confronti della Russia rappresenta un test cruciale. Obama nel suo Stato dell’Unione spiega come una politica di pressione costante ha iniziato ad avere un impatto sulla politica russa nei confronti dell’Ucraina. Ora spetta ai capi di Stato e di governo europei decidere se la pressione dovrebbe essere mantenuta o diminuita.
Erik Jones, direttore del Bologna Institute for Policy Research presso la Johns Hopkins University