Il 2015 si è aperto sull’ennesima querelle sul pubblico impiego: le norme del Jobs Act (legge sul lavoro) che vanno ad incidere sul reintegro del lavoratore privato licenziato si applicano o meno al settore pubblico? E, ci si chiede, questi maledetti “statali” sono licenziabili o meno? È partita da qui un’interminabile diatriba, su giornali e social network, sui cosiddetti privilegi dei dipendenti pubblici e sulla necessità di un’equa parità di trattamento fra settore pubblico e settore privato. Proviamo a fare ordine nella questione? Intanto, fatemi registrare una strana voglia masochistica di fondo. Senza alcun interesse a comprendere la diversa natura di un’impresa privata e di un’organizzazione pubblica, il nuovo dogma che impera è il seguente: dato che nel settore privato è diventato più facile licenziare (diciamolo meglio: è stata introdotta la monetizzazione in luogo del reintegro), lo stesso deve valere per il pubblico. Come a dire: tanto peggio, tanto meglio. Uno strano meccanismo davvero, per il quale si accetta supinamente l’idea per la quale una struttura di produzione di beni e/o servizi, di qualsiasi natura, cresce se fa a meno della sua principale risorsa e che, di conseguenza, il Paese cresce se tutti diventiamo più facilmente licenziabili. Non solo: si fa strada un certo giustizialismo da bar in virtù del quale un lavoratore, a prescindere dalla natura ed entità della presunta cattiva condotta che possa tenere, deve “andare a casa”, a maggior ragione se dipendente pubblico. Poco importa che non si può prescindere dall’accertamento delle responsabilità e dalla gradualità delle eventuali sanzioni che, provati i fatti, si deve poi avere il coraggio di comminare, sia dal punto di vista disciplinare che per ogni altro profilo, incluso quello penale. Sia chiaro: al lavoratore pubblico, che ha l’onore di servire lo Stato e la comunità dei suoi pari, devono essere richiesti oneri precisi in virtù dell’interesse pubblico che rappresenta e che deve garantire. Ed è per questo che al dipendente pubblico sono imputabili responsabilità di natura disciplinare, amministrativa e contabile, penale e di rendimento sul luogo di lavoro che già a prescindere dalle norme del Jobs Act possono portare al licenziamento. Banalità, evidentemente, ma che sembrano sconosciute a certa politica e certa informazione.
E allora torniamo al punto: le norme del Jobs Act si applicano ai dipendenti pubblici? Come ricorda un recente studio Adapt sui decreti attuativi del Jobs Act (in particolare le riflessioni di Luigi Oliveri e Francesco Verbaro), le fattispecie di licenziamento per giustificato motivo soggettivo e oggettivo per il dipendente pubblico – ovvero per scarso rendimento e situazione finanziaria dell’ente – sono già presenti nella normativa (decreti legislativi 165 del 2001 e 150 del 2009). Il problema, a parte il licenziamento discriminatorio, sarebbe il licenziamento illegittimo, sulle cui conseguenze è intervenuto il Jobs Act e che, per il pubblico, sostiene il Ministro Madia, richiederebbe il reintegro in luogo della semplice indennità. Il punto, quindi, non è la maggiore o minore facilità nel licenziare, ma della tipologia di rimedi successivi al licenziamento. Riordinato allora il quadro della questione, dobbiamo tener conto della differenza sostanziale di compiti e funzioni tra privato e pubblico: se i casi di possibile licenziamento illegittimo nel settore privato sono innumerevoli, nel settore pubblico sono di fatto inesistenti, in quanto ogni posizione è legata a una norma che disciplina una funzione. Non è possibile, in altre parole, licenziare illegittimamente qualcuno perché ad esempio si dichiara – falsamente – che da oggi in poi non si fanno più patenti e che, quindi, si debbono licenziare coloro che erano impiegati a tale scopo.
In realtà, questo dibattito nonsense, basato su fragorosi equivoci e nella rincorsa a chi è più bravo a licenziare, tralascia completamente un elemento fondamentale: la macchina pubblica opera per tutti e non ricerca un profitto. Ecco perché nella P.A. si accede per concorso pubblico, che dovrebbe garantire l’imparzialità della selezione, e perché tendenzialmente lo Stato non fallisce, nel qual caso la licenziabilità dei dipendenti pubblici sarebbe l’ultimo dei problemi. Se poi dal mondo delle idee scendiamo sul pianeta Terra, le cose cambiano. Sappiamo, tanto per fare un esempio, che per decenni leggine ad hoc hanno garantito infornate senza concorso, facendo pura e semplice assistenza sociale. Ha pagato Pantalone, e gli effetti li vediamo chiaramente. Sappiamo bene, inoltre, che lo Stato ha un problema di efficienza dei servizi che eroga e che, soprattutto, fatica a funzionare secondo principi di efficienza ed efficacia che devono essere propri anche del settore pubblico. Poiché lo paghiamo con i nostri soldi, anche episodi di malversazione o inefficienza statisticamente meno rilevanti suscitano comprensibilmente rabbia e indignazione. Provo, allora, a rovesciare il ragionamento con un punto di vista diverso: posto che licenziare dovrebbe essere, sempre e comunque, l’ultima spiaggia dell’impresa sana e del manager avveduto, non sarebbe ora che una politica lungimirante smettesse di inseguire la voglia di forca e cominciasse a tentare di immaginare come dar forza ad una P.A. a servizio del Paese? Soprattutto, classi dirigenti avvedute dovrebbero evitare di alimentare in modo sconsiderato una rabbia sorda che nasce dalla crisi e dalla paura, affrontando i temi veri e non spaccando il capello a quelli inesistenti. E se non dobbiamo smettere di indignarci di fronte all’indifendibile, abbiamo il dovere decidere se pretendere un’amministrazione pubblica che sia puntello per il Paese o disfarcene come una fastidiosa zavorra. È ora di scegliere e di smetterla di tirare a campare: prima o poi si tirerebbero le cuoia.