“Ottimo ed abbondante”: questo è il giudizio ricorrente sul Qe deciso giovedì scorso dalla Bce. Una affermazione che ricorda le risposte delle reclute di una volta, interrogate sulla qualità del rancio dal capitano d’ispezione. Il più delle volte, a rispondere con tanta deferenza, sono i banchieri: soggetti come sono alla vigilanza prudenziale della Bce e della Banca d’Italia, devono stare ben accorti. Anche chi pure vuole dimostrare un minimo spirito critico, non si sporge al di là del timido “troppo poco, troppo tardi”.
In realtà, è l’intero dibattito sul Quantitative easing nell’Eurozona che si è trascinato straccamente per mesi, nell’auspicare la replica di quanto è stato deciso negli Usa, in Giappone ed in Gran Bretagna. Si è preso però in considerazione soprattutto l’incremento dimensionale dei bilanci di quelle banche centrali, senza approfondire le singole modalità operative, le relazioni con le rispettive politiche di bilancio e le concrete motivazioni di politica economica.
In generale, la critica al Qe si appunta sul consistente ritardo con cui è stato deciso: arriverebbe solo quando si è consolidata e generalizzata la tendenza dei prezzi a contrarsi, ed avrebbe a questo punto una dimensione insufficiente a reflazionarli. Si sottovaluta però che la deflazione nei Paesi periferici è stato il principale obiettivo della politica di riequilibrio delle bilance dei pagamenti in rosso e dei disavanzi pubblici strutturalmente deficitari. Occorreva il riallineamento dei prezzi relativi all’interno dell’Eurozona, con la deflazione competitiva nei Paesi periferici. Dal punto di vista della Bce, di mese in mese i suoi econometristi hanno cercato di cogliere le tendenze alla deflazione, per giustificare l’adozione del Qe solo quando questa prospettiva ha raggiunto un livello tale da compromettere tutti gli altri sforzi compiuti della politica monetaria, attraverso tassi di finanziamento ai minimi storici ed una remunerazione negativa sui debositi eccedenti la riserva obbligatoria.
In questi termini, la critica sui ritardi non coglie ancora a pieno quello che invece è stato ed è ancora il principale errore commesso dalla Bce: aver considerato l’allentamento quantitativo in chiave monetarista, una misura straordinaria volta a perseguire il primo obiettivo statutario, rappresentato dalla stabilità dei prezzi. Affermare, come si fa nel comunicato sul Qe, che l’intervento potrebbe proseguire oltre il mese di settembre del 2016, fintanto che la tendenza generale dei prezzi non tornerà stabilmente verso, ma al di sotto, del 2% annuo, è un grave travisamento. La Bce è infatti venuta meno al suo secondo obiettivo statutario: “Fatto salvo l’obiettivo della stabilità dei prezzi, esso sostiene le politiche economiche generali della Comunità al fine di contribuire alla realizzazione degli obiettivi della Comunità definiti nell’articolo 2 del trattato”.
Qui si prevede che la Comunità “si adopera per lo sviluppo sostenibile dell’Europa, basato su una crescita economica equilibrata e sulla stabilità dei prezzi, su un’economia sociale di mercato fortemente competitiva, che mira alla piena occupazione e al progresso sociale, e su un elevato livello di tutela e di miglioramento della qualità dell’ambiente. Essa promuove il progresso scientifico e tecnologico”.
Occorre sottolineare, a questo punto, che la Fed e la BoJ non hanno limitato l’allentamento quantitativo al solo acquisto di titoli di Stato, peraltro in un contesto di elevato deficit spending: mentre la Fed si è focalizzata sugli Abs immobiliari per sostenere i valori di mercato fortemente compromessi dalla crisi dei mutui sub-ptrime, la BoJ ha deciso di finanziare progetti di investimento finalizzati alla riscostruzione dopo lo tsunami, l’innovazione produttiva ed in campo energetico. Nel contesto europeo, considerato che il Fiscal compact esclude tassativamente la golden rule sugli investimenti pubblici, risulta superfluo indirizzare il Qe verso l’acquisto di titoli di Stato al fine di rilanciare la crescita economica. Non c’è, infatti, diversamente da quanto è accaduto negli Usa ed in Giappone, un robuto deficit spending che finanzia la domanda interna e gli investimenti produttivi ma solo un disavanzo congiunturale ammesso per bilanciare gli effetti depressivi della politica fiscale.
L’obiettivo del Qe, secondo l’impostazione della Fed e della BoJ, non è tanto quello di immettere ulteriore liquidità nel sistema finanziario, quanto di indirizzarla immediatamente verso gli impieghi volti a suscitare la domanda e gli investimenti. L’Eurozona, poi, è già caduta nella trappola della liquidità: non solo i tassi di interesse, per quanto bassi, non compensano il rischio degli investimenti, ma anche le misure di T-Ltro non hanno dato alcun esito in termini di maggiore erogazione di credito bancario. Alla prima asta di settembre, le banche italiane si aggiudicarono 23 miliardi sul totale di 80 miliardi.
Alla seconda asta, a dicembre, ottennero altri 27 miliardi su 130. Nel totale le banche italiane hanno ottenuto con le T-Ltro liquidità a quattro anni per 50 miliardi, un ammontare praticamente identico alla liquidità che complessivamente il Qe assegna all’Italia nel periodo marzo-dicembre 2015. Il punto non è aumentare la liquidità disponibile preso il settore bancario e finanziario, ma utilizzarla in nuovi investimenti. Non serve liquidità per alimentare il trading sui titoli quotati, né il prestito interbancario: il rapporto price-earning sulle Piazze europee è ai massimi, mentre i tassi euribor sono addirittura negativi.
Dopo la crisi, in Italia, il crollo degli investimenti è stato impressionante: rispetto al livello del 2008, quando furono pari a 346 miliardi di euro, il calo complessivamente accumulato fino al 2013 è stato di 185 miliardi, di cui ben 107 miliardi concentrati nel settore delle costruzioni. Un intero comparto produttivo si è volatilizzato. Ma anche gli investimenti in macchinari, attrezzature ed armamenti si sono ridotti: -79 miliardi di euro, con un calo che si è fatto progressivamente più elevato, anno dopo anno. Sono aumentati solo gli investimenti in ricerca e sviluppo, ma di appena 5 miliardi. La disoccupazione galoppante è il frutto di questi andamenti dell’economia reale.
Di fronte ad una situazione di stallo che richiederebbe misure sistematiche di politica economica e monetaria per sostenere la ripresa economica dal punto di vista dell’offerta, ci si affida invece al volontarismo delle singole imprese, allo spirito di servizio delle banche, facendo gravare tutto il rischio delle operazioni sulle spalle delle banche centrali nazionali. Questa è la seconda, ancor più fondata critica al Qe.
C’è poi la questione della modalità di ripartizione dei 60 miliardi di euro mensili, effettuata sulla base della partecipazione delle singole banche centrali al capitale della Bce: è una proporzione inadeguata rispetto alla necessità di intervenire sulle preferenze nella localizzazione degli investimenti. Si doveva graduare l’intervento in funzione del tasso di disoccupazione. Appare eccessiva, poi, la condizione dell’investment grade per procedere all’acquisto di titoli di Stato, Abs o Covered bond: con il rating attuale, in Grecia sarebbe inibito praticamente qualsiasi investimento. In Italia, siamo con un rating che è appena un notch al di sopra del minimo prescritto, con un deterioramento dei crediti bancari che non conosce sosta. Serviva un intervento chiaro e predefinito sul piano dell’offerta, dei nuovi investimenti privati, magari con la sola garanzia statale, per far uscire l’economia reale dal vortice negativo in cui è caduta.
Il Qe non è tardivo, insufficiente dal punto di vista quantitativo, oppure squilibrato nella assegnazione dei rischi: è coerente con una impostazione monetarista che prevale palesemente gli obiettivi indicati nello Statuto della Bce e nel Trattato di Lisbona. La costituzione monetaria reale ha soppiantato quella legale. L’Europa è vittima di un pensiero nano, di un produttivismo regressivo che si fonda su tre paradigmi: il mantenimento dei profitti legato alla riduzione dei salari e non più agli investimenti; l’arricchimento progressivamente finanziarizzato; l’ambizione al benessere diffuso soppiantata dal pessimismo malthusiano. In questo declininismo, non solo demografico, l’Europa è finalmente unita. La reversibilità dell’euro non è un tabù