Skip to main content

Arabia Saudita, tutti gli effetti della morte di re Abdullah

I sudditi del regno saudita hanno saputo della morte del loro sovrano Abdullah bin Abdulaziz al Saud quando i canali televisivi, attorno all’una del mattino di venerdì, hanno interrotto le trasmissioni per lasciar spazio alla lettura di passi del Corano e a immagini della Kaaba, alla Mecca, il luogo più sacro dell’Islam. La notizia era attesa e ci ha messo poco a fare il giro del mondo. Un dato, in particolare, ne ha sottolineato l’importanza: sebbene le cronache quotidiane dei paesi arabi non manchino mai di spunti e sviluppi di rilievo, per qualche ora, nell’intera regione, non s’è parlato d’altro che della morte del Custode delle due sacre Moschee.

Il monarca Abdullah lascia al successore, suo fratello Salman, un’eredità tutt’altro che leggera. Dopo aver assunto il potere (de facto nel 1995, ufficialmente nel 2005), Abdullah ha fatto presto a imparare e applicare la complicatissima arte di governare l’Arabia Saudita. Ovvero, di bilanciare le forti pressioni esercitate da una miriade di attori interni – l’establishment religioso wahabita, le componenti tribali, la comunità sciita, le correnti interne alla casa dei Saud (che si dicono essere più articolate e agguerrite di quelle del nostrano Partito democratico) – in un contesto regionale conflittuale e in perpetuo cambiamento.

Il quadro che ne emerge è quello di un paese che, pur nelle sue contraddizioni, ha trovato un suo equilibrio nel riformismo moderato promosso da Abdullah. L’Arabia Saudita è il paese che continua a vietare alle donne di guidare un’auto e in cui le esecuzioni in pubblica piazza restano all’ordine del giorno. Ma è anche quello in cui 30 donne sono state nominate per la prima volta al Consiglio della Shura, l’organo consultivo della monarchia, e che per la prima volta nella sua storia ha consentito l’organizzazione di elezioni (ma solo amministrative). Nel bilancio non vanno tralasciate due voci. La prima è il punto di partenza: citando il racconto di un principe saudita al corrispondente del “New York TimesNeil MacFarquhar, meno di un secolo fa in Arabia Saudita “si andava nel deserto a cercare le ossa, sperando che non fossero ossa umane, poi si macinavano e, quando erano ridotte in polvere, si mangiavano, in caso contenessero un po’ di nutrimento”. La seconda è che nessuna riforma di re Abdullah sarebbe bastata a schermare il regno dagli scossoni delle tensioni sociali (soprattutto in tempi di Primavere arabe) in assenza di un’alta, altissima spesa pubblica, consentita dallo sfruttamento delle enormi risorse petrolifere a disposizione.

Le stesse contraddizioni si riflettono in politica estera, dove le politiche di re Abdullah non si ricordano solo per la nota proposta di pace per la questione israelo-palestinese formulata nel 2002 (e tutt’oggi punto di riferimento per chi s’approccia alla madre di tutti i conflitti mediorientali). L’Arabia Saudita è uno stretto alleato degli Stati Uniti nella guerra al terrorismo, ma la necessità di contrastare l’espansionismo iraniano e di contenere le ambiziose politiche del Qatar a sostegno della Fratellanza musulmana hanno spinto occasionalmente Riad a dare appoggio ad attori politici e milizie armate a volte d’ispirazione smaccatamente qaedista. Emblematica, in questo senso, è la figura di Bandar bin Sultan, detto in certi ambienti d’Oltreoceano Bandar “Bush” per via degli stretti legami con l’ex inquilino della Casa Bianca all’epoca in cui il saudita era ambasciatore a Washington.

Nel 2012, col complicarsi della crisi in Siria, Bandar era stato nominato da Abdullah alla guida dell’intelligence. E in questa veste s’era occupato dello scottante dossier siriano, aprendo contatti sul terreno, finanziando nuove milizie islamiste, armando i ribelli e strappando al Qatar l’egemonia sulla frammentata Coalizione nazionale dell’opposizione. Soprattutto, aveva ritirato fuori l’agenda dei tempi di Washington per fare pressione sugli Stati Uniti e indurli a intervenire militarmente in Siria, un’operazione poi scongiurata nel settembre del 2013 dall’accordo siglato in extremis sull’asse Mosca-Washington-Damasco per la dismissione dell’arsenale chimico di Bashar al Assad. Lo stesso accordo aveva decretato il fallimento della missione di Bandar, il quale qualche tempo dopo sarebbe stato rimosso dall’incarico di capo dell’intelligence e nominato inviato speciale di re Abdullah.

Il nuovo monarca, Salman, si porrà in linea di continuità con l’approccio politico di suo fratello. Qualora fosse necessario, lo ha confermato lui stesso a reti unificate. La stampa occidentale non ha tuttavia mancato di esprimere le proprie perplessità sulla figura del re, che ha ottant’anni e non sembra godere di una salute d’acciaio. Il “Washington Post” sostiene addirittura che sia affetto da demenza senile. Però, appena assunto il potere, Salman ha emesso un decreto di grande importanza e ha, di fatto, indirizzato a suo modo la linea di successione al trono per evitare che il futuro e inevitabile salto generazionale si trasformi in un salto nel bui.

Nel solco di quanto fatto da suo fratello Abdullah con l’attuale erede al trono, il principe Muqrin, il nuovo re ha nominato un vice-erede, individuandolo nella persona del ministro dell’Interno Mohammed bin Nayef. Tre considerazioni su quest’ultimo: è personalità di spessore (ben più del suo predecessore), portatore della linea dura contro i jihadisti, tanto da essere stato oggetto di un attentato di al Qaeda nella penisola arabica (Aqpa) nel 2009; sarà il primo erede al trono della terza generazione degli al Saud (per intenderci, i nipoti del fondatore del regno Abdulaziz); è un membro dell’influente clan dei Sudairi, ovvero i discendenti della moglie favorita di Abdulaziz, Hissa al Sudairi. Il nuovo re, però, non si è accontentato. Ha incaricato anche suo figlio Mohammed bin Salman (dunque un altro Sudairi) di guidare un dicastero chiave come quello della Difesa, accreditandolo così per una futura ascesa al trono.

Nel frattempo, restano gli affari correnti e le delicate sfide che infoltiscono l’agenda della leadership saudita. Innanzitutto sul piano interno. Gli analisti si chiedono se Riad sarà in grado di mantenere i consueti livelli di spesa pubblica mentre il prezzo del greggio continua a crollare. Si tratta di una questione centrale per il contenimento delle tensioni sociali, al quale peraltro contribuirebbe anche un miglioramento dei rapporti con la comunità sciita, che abita in maggioranza nella Provincia orientale e che certi ambienti di Riad considerano un covo di agenti iraniani. Da seguire con particolare attenzione, in questo senso, è la vicenda del leader sciita Nimr al Nimr, condannato a morte lo scorso ottobre. La sua esecuzione rischia di infiammare l’area del regno più ricca di giacimenti petroliferi.

E poi c’è una regione che ribolle fuori dai confini nazionali. A cominciare con lo Yemen: il vicino rischia di sfaldarsi tra la spinta dei ribelli sciiti Houthi e l’insurrezione di matrice qaedista. Finora, Riad si è limitata a rafforzare il controllo ai confini e a ordinare alle sue guardie di frontiera di sparare a vista contro qualsiasi tentativo d’infiltrazione. Ma le dimissioni del presidente Abd Rabbo Mansour Hadi e del governo di Sana’a aprono a scenari ben più preoccupanti per i sauditi. C’è poi la crescita dello Stato islamico in Iraq, in grado anch’esso di minacciare le frontiere saudite, e soprattutto la scottante questione del nucleare iraniano, che l’Arabia Saudita vive come una vera e propria minaccia contro la sua stessa esistenza. Dato il peso del regno negli equilibri regionali, gli effetti delle mosse del nuovo re s’avvertiranno quasi in ogni angolo del Medio Oriente. Ma per tornare a guardare fuori, però, ci sarà tempo. Ora in Arabia Saudita è ancora tempo di piangere re Abdullah.


CONDIVIDI SU:

Gallerie fotografiche correlate

×

Iscriviti alla newsletter