L’adeguamento al trattato di Prum, che istituisce una banca dati e un laboratorio del DNA, le difficoltà burocratiche, le resistenze sulla gestione di dati personali, la questione della privacy, i benefici attesi dall’introduzione della banca dati nazionale del DNA: questi i temi al centro del dibattito “Banca dati del DNA: le soluzioni della scienza contro il crimine” organizzato ieri dalla società Reti presso il Museo Criminologico di Roma.
L’IMPORTANZA DELLA BANCA DATI DEL DNA E LA POSIZIONE DELL’ITALIA
L’incontro, moderato dal giornalista del Corriere della sera, Giuseppe Guastella, ha visto la partecipazione di personalità istituzionali ed esperti del settore che si sono confrontati, alla luce dello loro esperienze maturate nel campo a livello nazionale e internazionale, su come il DNA ha cambiato il modo di fare indagini e ha influenzato il mondo del crimine, e soprattutto sull’importanza della banca dati del DNA come supporto che permette indagini più veloci e con un raggio di azione investigativa più ampio.
Un sistema di cui l’Italia ha bisogno e che potrebbe sfruttare al meglio, potendo contare sui database degli Stati europei che hanno già in funzione gli archivi, ma su cui siamo molto indietro. Il nostro Paese, infatti, è ancora sprovvisto di una banca dati nonostante la firma nel 2005 del trattato di Prum, ratificato con Belgio, Germania, Spagna, Francia, Lussemburgo, Paesi Bassi e Austria per rafforzare la cooperazione di polizia in materia di lotta al terrorismo, alla criminalità transfrontaliera e all’immigrazione clandestina con l’istituzione della banca dati.
L’ESPERIENZA-MODELLO DI USA E GRAN BRETAGNA
Per Tim Shellberg, esperto internazionale di banche dati del DNA, al momento l’Italia si trova in una fase di transizione su questo tema, «non ci sono dati di riscontro, ma si è sulla buona strada per farcela anche perché il nostro Paese dispone di leggi sulla privacy che pochi Stati hanno e che permettono di evitare violazioni che altrove avvengono». E aggiunge: «Potete facilmente prendere spunto da altri Paesi come il Regno Unito dove le hanno finanziate ed erano già in funzione dal 1995. Lì ogni anno vengono raccolti 500 mila test, che vengono poi aggiunti al database sul crimine».
Shellberg passa poi a spiegare l’importanza delle banche dati: «I database servono a risolvere i crimini perché, in assenza di altre prove e raccogliendo solo il DNA, si riesce quasi nella totalità delle volte a risolvere i casi e addirittura anche prevenire dei crimini». Questo strumento, «ci consente – continua – di scagionare gli innocenti ed evitare arresti, interrogatori e ci fa risparmiare non solo tempo ma anche denaro. Non a caso nel Regno Unito vengono raccolti tamponi di qualsiasi tipo». Il risultato? «La percentuale di furti è scesa di molto nel mondo. Negli USA, che dispone del secondo database più grande in circolazione dopo la Cina, abbiamo iniziato a usarli venti anni fa nel caso dei reati sessuali, poi abbiamo allargato il campo ad altre tipologie di crimini, inserendo anche i campioni di gente arrestata. Ad oggi abbiamo più di 270mila casi risolti».
Shellberg spiega poi quanto all’estero le banche dati siano oggetto di interesse a livello istituzionale: «Basti pensare al Cile – dice – dove nel 2005 il Capo di Stato è andato di persona a visitare il laboratorio, segnale del livello di interesse e di importanza a livello nazionale di questo comparto». «Ma c’è bisogno che tutti ne comprendano l’importanza – spiega l’esperto -, esistono molte associazioni che fanno lobby. Quarantanove paesi hanno approvato leggi in questo senso sull’esempio del Regno Unito, degli Stati Uniti e della Nuova Zelanda ma ne mancano all’appello ancora 146». Perciò, conclude Shellberg, «bisogna sponsorizzare questo tema ai piani più alti, deve esserci un dialogo».
GLI ERRORI GIUDIZIARI E L’IMPREPARAZIONE DEL “FIRST RESPOND”
Secondo Luciano Garofano, presidente dell’Accademia italiana di Scienze forensi, «attorno alla banca dati del DNA c’è tutto un sottobosco che riguarda il mondo del crimine e che ha allungato i tempi di attuazione in Italia». E spiega: «Abbiamo aspettato undici anni per avere una banca dati e non si può più rimandare poiché il ruolo delle indagini tecnico-scientifiche è sempre più importante, basti pensare al caso di Yara o al killer Donato Bilancia». Ma passa poi a indicare le criticità del sistema, rovesciando la medaglia: «Il DNA non può tutto. Ci sono casi come l’omicidio di Meredith, quello di Via Poma o quello di Garlasco in cui non è stato fatto abbastanza perché ci sono stati errori giudiziari». «Ci deve essere un contributo multidisciplinare – continua -, deve esserci concordanza investigativa. La prova scientifica da sola non basta. È necessario il confronto con elementi campione per evitare l’errore giudiziario». Garofano spiega in maniera critica: «In Italia questa perfezione non c’è, molte tracce fisiche già individuate nel 1991 sono ancora ignorate, per esempio. Il ruolo fortemente in ritardo è quello del “first respond” (Polizia, Carabinieri, Pronto soccorso, Vigili del fuoco). Si interviene senza una formazione specifica, c’è approssimazione. Bisogna rivedere questi ruoli».
IL PERCORSO NORMATIVO E LO STATO DELL’ARTE DELLA BANCA DATI ITALIANA
Renato Biondo, Primo Dirigente tecnico della Polizia di Stato – Banca Dati Nazionale DNA, spiega che «sia il Garante che il Comitato hanno dato assenso a normare la banca del DNA» e illustra i passi fatti in questo senso: «Nel 2001, in ambito Ue c’è stata una risoluzione per definire il set standard europeo per lo scambio dei dati del DNA, mentre nel 2005 con il trattato di Prum, sono create banche dati nazionali forensi per scambio DNA, impronte digitali e dati veicoli». Nel 2006, continua, «viene adottata una decisione per la semplificazione dello scambio delle informazioni di polizia ed intelligence tra le autorità di polizia e, sul fronte nazionale, il ministro degli Interni italiano firma la dichiarazione di adesione al trattato di Prum».
Nel 2008, invece, «vengono messe a punto a livello europeo delle decisioni per inserire nel quadro normativo comunitario il trattato di Prum e quindi la creazione delle banche dati nazionale del DNA, impronte digitali e dati veicoli. Mentre nel 2009 da un lato, a livello europeo, «si lavora per definire lo standard internazionale di riferimento dei laboratori che effettuano analisi del DNA in ambito forense». Dall’altro, l’Italia aderisce al trattato di Prum «e viene istituita la BDN DNA presso il ministero dell’Interno e il laboratorio Centrale per la BDN DNA presso il ministero di Giustizia». Fino ad approdare al luglio del 2014 quando «con la legge n.99 viene ratificato l’accordo tra il Governo della Repubblica italiana e il Governo degli Usa sul rafforzamento della cooperazione nella prevenzione e lotta alle forme gravi di criminalità».
Dopo aver illustrato le tappe che hanno segnato il percorso dell’istituzionalizzazione delle banche dati del DNA a livello europeo e italiano, Biondo spiega che nel caso dell’Italia, «arrivando per ultima, la qualità del dato sarà esclusiva e doppia rispetto agli atri poiché c’è attenzione sulla tracciabilità del campione. Il che si traduce nel 14% delle analisi in meno e quindi in una riduzione dei costi. E che insomma, «la lentezza del nostro Paese in questo campo, dovuta al lungo adeguamento delle strutture, sarà compensata dal riconoscimento in ambito internazionale».
Foto di Giovanni Pulice