Ricorre in questi giorni il secondo anniversario della clamorosa rinuncia di Papa Benedetto XVI. Intervistato dal Corriere della Sera per la ricorrenza, il suo storico segretario particolare, M.or Georg Gänswein, ha ribadito che “Benedetto XVI è convinto che la decisione presa e comunicata sia quella giusta. Non ne dubita. E’ serenissimo e certo di questo: la sua decisione era necessaria, presa «dopo aver ripetutamente esaminato la mia coscienza davanti a Dio»”. Pur con tutto il rispetto e l’ammirazione per il grandissimo teologo nascosto sotto l’umile pontefice, chi scrive continua a pensare che invece le dimissioni furono un errore. E, anzi, guardando a ciò che sta accadendo alla e nella chiesa, ne sono più convinto ora di due anni fa. Certo, un uomo solo non può fare molto contro forze più grandi lui. E che in questi anni la chiesa sia stata, e lo sia tuttora, sconquassata da venti di tempesta, è sotto gli occhi di tutti. Già fin dall’ultimo periodo del pontificato di Giovanni Paolo II, e più ancora dopo la sua morte, gli ambienti che volevano (e vogliono) imporre una svolta aperturista, soprattutto sulle tematiche di morale sessuale e famigliare, provarono a indirizzare le cose in un certo modo. Ovvio che l’elezione nel 2005 di Papa Ratzinger, braccio destro del santo Papa polacco per quasi un quarto di secolo, non poteva essere ben accolta. E fu così che i novatori si rimisero all’opera, facilitati anche da un clima culturale certo non benevolo nei confronti di Benedetto XVI. Il resto è storia nota. A riprova di quale sia la vera posta in gioco, basti vedere quanto è accaduto al Sinodo straordinario sulla famiglia dell’anno scorso, e il dibattito che ferve attorno all’attesissimo Sinodo ordinario del prossimo ottobre, dove la questione della comunione ai divorziati risposati è solo la punta dell’iceberg. Staremo a vedere. Resta però il fatto, tornando al gesto di Benedetto XVI, che è proprio quando la barca è scossa dalla tempesta che un Papa è chiamato ad essere Pietro, cioè la roccia che, non a caso, Cristo ha posto a capo della chiesa. L’essenza del mandato petrino è questa: confermare nella fede i fratelli. Per un cattolico questo è ciò che conta: vedere che nel momento della prova, del dubbio, del conflitto, qualsiasi esso sia, Pietro non vacilla, ed anzi è pronto a testimoniare fino alla fine quella fede senza la quale non hanno alcun senso né il cristianesimo né la chiesa: “Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza”, disse Cristo a Paolo. Invece, nel conflitto tra il teologo e l’uomo di fede, alla fine ha prevalso il primo sul secondo. Anche per questo è auspicabile che nel futuro prossimo la chiesa ripensi seriamente lo statuto della teologia, affinché questa sia realmente un aiuto, e non un ostacolo, alla fede. In primis, di chi la teologia la esercita di professione. Le cose di chiesa – e in questo sta l’errore di tante ricostruzioni e interpretazioni di stampo laico che si sono lette – sono sempre realtà dove il fattore umano è secondario, e dove invece è prioritario l’elemento trascendente. Il punto allora è che al dunque, al momento della prova, l’atteggiamento del teologo – e di un teologo di primissima categoria, uno dei più grandi del ‘900 che per tutta la vita, e anche durante il suo pontificato, ha cercato di mostrare la ragionevolezza della fede, quasi a voler proporre un illuminismo cristiano capace di vincere sul suo stesso terreno la sfida di una modernità che si voleva, e si vuole superbamente autosufficiente – ha avuto la meglio sul Ratzinger “semplice” credente. Certo, la chiesa andrà avanti lo stesso perché essa (è bene ricordarcelo) è di Dio ed è Lui che la porta avanti attraverso l’incessante azione dello Spirito Santo. Anche se a volte si fa fatica a scorgerne l’impronta.
A due anni dalla rinuncia di Benedetto XVI
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