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Oltre le barricate del non sapere

Dallo scetticismo dell’accordo di Minsk a Boko Haram che arriva e colpisce, per la prima volta, anche in Ciad. Il Venezuela svaluta e l’Egitto riceve finanziamenti sovietici e armamenti francesi. Vecchie storie che sono acqua che corre ed il vecchio continente un buon bacino di raccolta. Poco importa, poi, se molta acqua è stagnante e putrida. E’ il mondo che va così. Ma così, come?  Anzitutto parliamo di un mondo del quale crediamo di conoscere ogni particolare e ogni dettaglio perché l’informazione ci ha spinto a tanto. Vale un po’ la logica dell’insegnamento scolastico: i professori insegnarono a noi quel che i libri insegnarono loro e, attraverso i libri, dovremmo poi fare lo stesso. Ciarlare convulso, immagini censurate, la solita e stessa sequenza dell’attentato a Charlie Hedbo e l’unica certezza diviene la paura.

Prima di impazzire, tra lo sgomento stomachevole delle notizie passate all’ora di pranzo, per la paura insediata tra il piatto fondo e le posate disordinate sul tovagliolo, ho cercato di capirci qualcosa. Mille ricerche e la risposta era la più ovvia: parlare con chi di dovere.

Ho scritto a Eugenio Roscini Vitali e le risposte non si sono fatte attendere. Roscini Vitali è un Colonnello dell’Aeronautica Militare Italiana in congedo che ha prestato servizio presso alti Comandi nazionali ed internazionali, lavorando per quasi 40 anni nel settore dello sviluppo delle piattaforme operative di Comando e Controllo. Arruolato nel 1972, ha conseguito un master di specializzazione in analisi di sistema e procedure all’Istituto Superiore di Telecomunicazioni (Roma), ha frequentato numerosi corsi di perfezionamento presso il Comando NATO di SHAPE (BE) e la Scuola NATO di Oberammergau (GE). Ha fatto parte dei gruppi di lavoro che hanno realizzato le prime procedure di automatizzazione dell’Air Task, i primi sistemi di Comando e Controllo, le prime sale operative congiunte, il CAOC di Vicenza, il Comando mobile del Joint Command South, il primo modello NATO di Air Picture. In ambito internazionale, poi, ha prestato servizio presso il Comando Forze Terrestri Alleate del Sud Europa (Verona), la 5^ Forza Aerea Tattica Alleata (Vicenza) e il Comando NATO di AFSOUTH (Bagnoli) ed ha partecipato alle Operazioni NATO nei Balcani, IFOR, SFOR e KFOR.

Oggi, dopo qualche esperienza in rete, ha voluto e gestisce un blog che tratta esclusivamente di temi legati al settore della Difesa, “IT log defence”. Il tentativo è quello di introdurre nel nostro Paese realtà che all’estero definirei quotidiane, siti dedicati alla diffusione di informazioni e notizie inerenti argomenti di carattere militare, sia dal punto di vista tecnico-operativo che economico-industriale. La Difesa è un business globale che ogni anno fattura 1.500 miliardi di dollari, 850 milioni dei quali in armi leggere, una cifra impressionante che coinvolge migliaia di aziende di oltre 100 Paesi e milioni di lavoratori e che dopo alcuni anni di flessione (pochi punti percentuali) è tornato a crescere. Per utilizzare un termine di paragone basti pensare che in Russia le persone impiegate nell’industria della tecnologia militare e degli armamenti sono più di quattro milioni. Collabora, inoltre, con uno dei punti di riferimento di questo settore dell’informazione, Analisi Difesa, il primo magazine on-line italiano che da anni si occupa, con grande professionalità, di Difesa, Industria e tematiche militari.

Antonio Fiore : Ukraina vs Russia. Il Califfato che avanza. Boko Haram che par quasi – eticamente e moralmente – un non-problema nostro. I paesi arabi che si affacciano sul mediterraneo che restano imbrigliati nel limbo dell’indecisione. La rete, poi, doveva facilitare la fruizione di informazioni e notizie. Pare, invece, che la confusione sia totale. Cosa sta accadendo intorno a noi? Quali i conflitti che ci interessano direttamente e quali gli attori in campo?

Col. Roscini Vitali : Per rispondere a questa domanda fermiamoci un attimo a contare i conflitti e le guerre civili che si consumano oggi nel mondo, scontri armati che a vario titolo coinvolgono l’Occidente, l’Alleanza Atlantica e l’Unione Europea, realtà alle quali apparteniamo e con le quali siamo tenuti a rapportarci. Africa, Medio Oriente, Asia Centrale, Europa, più di 20 fronti che coinvolgono circa 600 parti: eserciti regolari, milizie, gruppi paramilitari , movimenti separatisti, bande armate e contractors. Per quasi la metà le guerre si giocano in aree che sono direttamente o indirettamente influenzate da fortissimi interessi economici mischiati al fanatismo e all’integralismo religioso, elementi questi ultimi utilizzati ad arte per nascondere finalità ulteriori rispetto a quelle proclamate, nel senso che il vero scopo diventa la ricchezza o il potere personale, come nel caso dei militanti legati allo Stato Islamico o al gruppo “terroristico” Boko-Haram. E c’è poi un ulteriore aspetto, quello imputabile alle coalizioni occidentali che sono intervenute militarmente per rovesciare i regimi mediorientali, non dando adeguate alternative di democrazia ai cambiamenti politici in atto.

Riguardo ai conflitti che a vario titolo più ci interessano non posso che menzionare la Libia e l’Ucraina orientale. La prima imbrigliata in una guerra civile senza quartiere, possibile ponte verso l’Europa per il terrorismo islamico, dove le possibilità di una rapida soluzione sembrano scarse e il ruolo degli attori internazionali diventa fondamentale, e dove, a mio parere, l’Occidente deve intervenire in prima persona. La seconda, la guerra nelle provincie filorusse dell’Ucraina orientale, è una polveriera pronta ad esplodere, un conflitto che potrebbe durare decine di anni e che noi potremmo pagare a caro prezzo. Donetsk e Lugansk non sono i Balcani e la Russia non è la Serbia, ergo attenzione.

Le guerre sono cambiate e la cinematografia è così lontana, per ovvie ragioni, dal descriverci la totalità delle sensazioni. Non vi sono più trincee scavate, turni di guardia, pidocchi da bollire. Ritengo che la distruzione dell’avversario avvenga prima sul piano psicologico che fisico e il terrore nel quale è sprofondato l’occidente ne è la dimostrazione. Dead man walking? Non siamo pronti ad affrontare la realtà?

Parliamo di Charlie Hebdo, classico esempio in cui il terrorismo cerca di sfruttare la componente psicologica della comunicazione per produrre effetti devastanti sull’opinione pubblica. Un modo strumentale, che trasforma un atto terroristico ad elevato contenuto emozionale in un’azione dalla portata non reale, i cui effetti non sono più il numero delle vittime, ma i danni mediatici che provoca. Esplosioni di violenza che in noi europei creano certamente un certo disagio, ma alle quali sappiamo reagire: lo dimostrano le manifestazioni di Parigi e la reazione dinamica delle forze di sicurezza e dei servizi segreti che pagano comunque lo scotto di scelte politiche che non hanno saputo captare il rischio di infiltrazioni terroristiche jihadiste tra il flusso di immigrati provenienti dal Medio Oriente e dal Nord Africa.

Tutt’altra cosa sono gli effetti psicologici che hanno causato le guerra nei Balcani, nel Caucaso, nel Libano o quella più attuale che si sta consumando in Ucraina: a quel tipo di guerre penso che non siamo e non saremo mai pronti.

Abbiamo difficoltà, in Italia, ad immaginare un servizio di intelligence che lavori continuamente ed ininterrottamente. Mi dica, in coscienza, stiamo lavorando?

Nonostante il continuo evolversi della minaccia, il sistema italiano di informazione per la sicurezza risponde perfettamente ai compiti assegnatigli, sia attraverso l’Agenzia informazioni e sicurezza esterna (AISE) che attraverso l’Agenzia informazioni e sicurezza interna (AISI), sia grazie alla stretta collaborazione con le agenzie intelligence di altri Paesi. Quello che manca sono sicuramente le risorse, non solo economiche ma anche umane e tecnologiche. Servirebbero sicuramente investimenti adeguati nel campo delle cyber minacce, così come sarebbe opportuno pensare ad un aumento consistente di personale, fattori fondamentali per far fronte ad una forma di terrorismo molecolare caratterizzata da aggregazioni di singoli individui o piccoli gruppi pronti ad emulare i fatti di Parigi.

Dopo Parigi, che guerra ci aspetta?

Una lunga guerra di posizione contro il terrorismo, tra Occidente e Paesi arabi vicini a Washington da una parte e Jihad islamica dall’altra. Questo almeno fino a quando non verrà sferrato un massiccio intervento militare di terra, unica soluzione possibile per chiudere definitivamente la pratica “Stato Islamico”. Se ciò non accadesse, potremmo assistere all’apertura di nuovi fronti: il Libano innanzitutto, obiettivo dei militanti dello Stato Islamico e Paese estremamente esposto agli eventi che sconvolgono la Siria, e poi le capitali europee, particolarmente esposte alle attività terroristiche delle organizzazioni jihadiste.

Come ci rapportiamo al teatro bellico mondiale? Che ruolo abbiamo? Quali le scelte di campo?

Le Forze Armate Italiane dispongono di tutte le credenziali necessaria per poter rivestire ruoli di primaria responsabilità, sia all’interno delle operazioni condotte dall’Alleanza Atlantica sia come Paese partecipante alle missioni di peacekeeping delle Nazioni Unite. L’impegno profuso è massimo ed è fondamentale nella stabilizzazione di numerose aree di crisi, in particolare in Medio Oriente e in Africa. Tra i Paesi occidentali e dell’Unione Europea, l’Italia è al primo posto in termini di numero di personale militare e di polizia altamente qualificato assegnato alle operazioni di pace delle Nazioni Unite. Il nostri militari svolgono un ruolo particolarmente rilevante nella missione UNIFIL II nel Sud del Libano, in Kosovo e in Afghanistan, oltre che in Repubblica Centroafricana, in Mali, in Somalia, in Libia e nelle acque del Corno d’Africa. E’ quindi auspicabile che la politica continui a sostenere e soddisfare le esigenze della Difesa, con finanziamenti e mezzi adeguati alle varie esigenze.

L’Europa ci osserva e noi, di rimando, osserviamo lei. Quali accordi legano i paesi comunitari nell’affrontare militarmente una minaccia comune al cuore del vecchio continente? Non solo. Mi dica, in coscienza, quanta responsabilità abbiamo nel sostegno “fittizio” alle varie guerriglie nel mondo?

L’Europa è unita sotto un solo tetto, l’Alleanza Atlantica, e l’art. 5 del Trattato che parla di “difesa comune” è l’unico mezzo valido per affrontare una qualsiasi minaccia. E così sarà per molti anni a venire, visto che, e di questo sono certo, ci vorranno decenni prima di veder nascere le Forze Armate dell’Unione Europea. Riguardo alle responsabilità, penso che l’unica colpa dell’Europa, e quindi dell’Italia, sia quella di non intervenire in maniera più coerente e determinata, come nel caso di Hamas che la Corte dell’Unione Europea depennava dalla lista delle organizzazioni terroristiche mentre il Parlamento Ue votava il riconoscimento, anche se in linea di principio, di uno Stato della Palestina disegnato sui confini tracciati nel 1967. Due fatti che se messi insieme lasciano spazio a non poche perplessità visto che proprio Hamas, governa insieme a Fatah e all’Autorità palestinese la Striscia di Gaza, territorio dal quale vengono lanciati a cadenza giornaliera gli attacchi contro Israele, siano essi razzi, missili o attentati terroristici.

Da alcune settimane pare che la polemica sulle due cooperanti italiane rapite in Siria si sia attenuata dopo un turbinio di commenti sui social da parte di tutti, società civile e politici. Riscatto si o riscatto no? Quale la sua linea personale e quale quella nazionale?

Innanzitutto salvaguardare la vita dei nostri connazionali, e questa è sicuramente la posizione del governo; in secondo luogo limitare la presenza di civili in aeree a rischio se non quando tutelati da grandi organizzazioni umanitarie e dal sostegno di forze di difesa amiche. Secondo una recente inchiesta del New York Times, per molti gruppi legati al terrorismi islamico il business dei sequestri sarebbe la principale fonte di finanziamento. Nel quinquennio 2008-2013 la sola galassia al-Qaeda avrebbe incassato 125 milioni di dollari, 91.5 dei quali ottenuti per la liberazione degli ostaggi rapiti nel Maghreb, la metà dei quali pagati dalla Francia, e 29.9 milioni nella penisola araba. Tutto denaro che è rientrato nel circolo dei finanziamenti alle cellule terroristiche in Europa e negli Stati Uniti e nell’acquisto di armi e logistica.


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