Da un episodio di cronaca – l’accordo firmato tra Cina e Stati Uniti – si risale agevolmente alla storia. La sigla apposta lo scorso novembre a Pechino è importante per molte ragioni; due sono le principali: finalmente un accordo è stato raggiunto, le sue modalità possono essere veramente innovative. Queste considerazioni valicano i recinti, pur importanti, delle cifre riportate. Dopo anni di trattative segrete la Cina ha consentito di raggiungere l’apice della produzione di anidride carbonica nel 2030 e di aumentare l’uso di energia senza emissioni del 20% entro la stessa data. Dal canto loro, gli Stati Uniti si sono impegnati a ridurre le emissioni del 26-28%, rispetto ai valori del 2005, entro il 2025. I compiti assunti sono importanti, anche se quello dell’Europa – una riduzione dell’emissione dei gas serra del 40% entro il 2030 – appare di gran lunga più impegnativo. Il motivo unificante del ritardo finora registrato dall’accordo – e quindi del suo valore attuale – è stato il tratto politico che lo caratterizza. È inevitabile quando è in ballo il futuro delle due più grandi potenze politiche, delle più forti economie, dei paesi più inquinanti al mondo.
Quando Obama e Xi Jin Ping hanno inchiostrato l’accordo, hanno riconosciuto, almeno formalmente, che siamo tutti responsabili dell’inquinamento e che la drammatica prospettiva di vita si risolve soltanto con la trattativa. Questo è nei fatti il valore principale dell’accordo. È in realtà lo stesso principio del Trattato di Kyoto, che consentiva di continuare a emettere gas nei paesi industrializzati, concentrando la prevenzione in quelli in via di sviluppo. Le ciminiere potevano fumare in Renania se quelle di Pechino lo avessero fatto di meno. Sembrava un accordo intriso di ipocrisia, ma l’ambizione è apparsa condivisibile: l’inquinamento non conosce frontiere, come la globalizzazione. Se con essa possono viaggiare merci, capitali e persone, anche i gas inquinanti valicano i controlli doganali, senza chiedere permesso. Tuttavia l’accordo è fallito, soprattutto perché Washington e Pechino ne hanno dato un’interpretazione diversa. La capitale Usa non l’ha neanche firmato, scettica sul reale impegno della Cina. Quest’ultima è divenuta così, senza controlli, il più grande inquinatore al mondo, togliendo la supremazia proprio agli Stati Uniti.
In realtà, l’ideologia e la propaganda si sono coniugate, in un inedito ménage a trois, con gli interessi economici. Ne è scaturito un blocco invincibile, cementato da antichi rancori. La Cina non intende flettere dall’ambizione alla crescita. La dirigenza sa bene che può restare in sella soltanto se la prosperità cresce e si diffonde. Per questo, deve continuare a produrre merci e ricchezza. Se l’inquinamento cresce, si chiude un occhio, forse anche due. Le ragioni dello sviluppo vengono prima. Le lamentele dell’occidente, secondo Pechino, riflettono una vecchia arroganza. Statistiche alla mano, lamentano che proprio l’Europa e poi il Nord America sono stati per secoli i primi inquinatori mondiali. Ora gli stessi paesi non possono ergersi a giudici del riscatto altrui. Non solo i Cinesi, ma tutti i cittadini dei paesi emergenti hanno diritto ai confort e alla prosperità da lungo tempo conquistata in Occidente. Questa posizione, seppur matematicamente inattaccabile, risente di un vizio di nascita politico. Le colpe degli altri diventano la giustificazione per autoassolversi. Per decenni la natura in Cina è stata violentata, rinnegando la tradizione culturale che auspica un rapporto armonioso tra l’uomo e la natura. Le necessità dello sviluppo non hanno conosciuto limiti, sconfinando nell’arricchimento personale, nella violazione più eclatante dei più elementari standard ambientali. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: l’aria a Pechino è irrespirabile, nelle città vicino alle miniere il carbone annerisce i volti, i fiumi sono secchi, le tempeste di sabbia colpiscono la capitale perché gli alberi che la proteggevano dalla polvere mongola sono stati tagliati. La novità rispetto al passato è la consapevolezza del problema, della sua gravità sociale. Ironicamente, la Cina è il paese che inquina di più al mondo, ma è anche quello che spende di più per disinquinare, che investe di più in energie pulite, che produce il più alto numero di pannelli solari. Queste contraddizioni non sono più gestibili per la Cina. L’accordo con gli Usa dimostra che sarebbe suicida continuare una politica autarchica e nazionalista.
L’altro aspetto importante dell’accordo è l’accettazione cinese di controlli sulla base di numeri e scadenza. Non sono ancora noti i dettagli dell’enforcement, ma per la prima volta la Cina sottopone le proprie scelte a vincoli esterni. Finora aveva rimandato tutte le firme, aderendo soltanto a protocolli internazionali che annacquavano le disposizioni. L’orgoglio della sinitudine aveva guidato ogni decisione. Così come il valore del renminbi si decide a Pechino, lo stesso doveva succedere per la quantità emessa di Co2. Ogni intromissione veniva respinta come “indebita interferenza negli affari interni di una nazione”. La rigidità aveva conquistato alla causa cinese la simpatia dell’ex Terzo mondo. Le sterminate popolazioni dell’Asia continuano a guardare alle scuole per i loro figli, alla capienza dei frigoriferi, al sogno di un’automobile, senza indagare se il motore è a scoppio o elettrico. Con acume e lungimiranza, Xi Jin Ping comprende che la Cina non può contemporaneamente isolarsi e rimanere un pilastro della globalizzazione. Più prosaicamente ha bisogno della tecnologia disinquinante degli Stati Uniti, finora mai concessa da amministrazioni più antagoniste. Percorre anche la strada della gestione di situazioni complesse, percorso ineludibile quando il suo paese è cresciuto così velocemente. Dallo scambio con gli Usa sembra trarre vantaggio: cede un’insignificante porzione di sovranità nazionale in cambio di un doppio passaggio: uno verso cieli puliti, l’altro nella storia.
(Articolo estratto dal n°100 della rivista Formiche)