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L’Italia può davvero scegliere di non intervenire in Libia?

Buona parte della stampa italiana non ha resistito alla tentazione di strutturare dialetticamente il dibattito sulla crisi libica. Ovvero: da un lato gli “interventisti”, dall’altro i “pacifisti”. La novità di questo secolo sembrerebbe costituita unicamente dalla corposa linea complottista, la cui ostinata opposizione al coinvolgimento italiano in Libia deriva dall’idea che lo Stato islamico sia null’altro che un figlio illegittimo del matrimonio tra la Cia e il Mossad.

Nei fatti, le cose sono più complicate. E sarebbe bene essere chiari: in questa faccenda l’Italia ha margini di decisione assai stretti e, in un modo o nell’altro, difficilmente potrà evitare di essere trascinata in un’operazione militare in Libia. Di certo c’è che per capire come andranno a finire le cose sarebbe corretto togliere un po’ di spazio alle quotidiane dichiarazioni dei politici nostrani e seguire con maggiore attenzione gli sviluppi della situazione sul terreno in Libia e l’evoluzione dell’iniziativa diplomatica delle Nazioni Unite.
Andiamo per gradi.

Le vicende degli ultimi mesi hanno fatto emergere nel paese nordafricano due poli di potere contrapposti. Da un lato c’è Tripoli, con il Congresso generale nazionale e il governo di Omar al Hassi. A dominare, qui, sono le forze politiche vicine all’universo della Fratellanza musulmana. Sul terreno, invece, agiscono una serie di milizie islamiste riunite sotto il cappello dell’operazione Alba della Libia. Dall’altro lato, politicamente e geograficamente, abbiamo Tobruk. L’esecutivo dell’ex ministro della Difesa Abdullah al Thani è espressione della Camera dei rappresentanti, la cui elezione dello scorso luglio è giudicata illegittima dalla Corte suprema di Tripoli. Al Thani appoggia le forze fedeli al generale Khalifa Haftar, convinto anti-islamista e, dicono i maligni, aspirante al ruolo dell’al Sisi libico.

Il governo italiano vuole evitare di andare in Libia in assenza di un interlocutore politico unico e riconosciuto. Spazio, dunque, all’azione diplomatica dell’inviato speciale delle Nazioni Unite, Bernardino Leon, che cerca in queste ore di isolare il più possibile Tripoli e Tobruk dalle interferenze regionali (da una parte quelle di Turchia e Qatar, dall’altra quelle di Egitto ed Emirati Arabi Uniti) e di coinvolgere nel processo di dialogo quella miriade di tribù che costituisce il midollo spinale dello scenario politico e sociale del paese. Non è un compito facile.

Se l’iniziativa diplomatica di Leon avrà successo, Roma – lo ha chiarito da mesi a tutti i suoi alleati – sarà in prima linea per guidare un’azione di peacekeeping sotto il cappello delle Nazioni Unite. L’emergere prepotente dello Stato islamico come terzo attore sul terreno non fa che rendere l’intervento ancor più necessario, ma rischia anche di cambiarne sostanzialmente connotati (da peacekeeping a peace enforcement) ed obiettivi (dalla protezione di un’eventuale tregua tra le milizie all’arginamento della minaccia jihadista, oggi relativamente limitata).

Ma che cosa succede se, invece, gli sforzi diplomatici si riveleranno vani? A ben vedere, un eventuale fallimento di Leon non renderà l’intervento militare meno urgente. Anzi. Il naufragio del dialogo politico concreterebbe la prospettiva di uno Stato fallito, nel quale i jihadisti – come ha già ampiamente dimostrato – avrebbero vita facile a radicarsi e prosperare. Prenderebbe forma, anche, un forte rischio di contagio per i paesi vicini. Su tutti quella Tunisia che negli ultimi anni ha completato con successo il percorso di transizione democratica ma che ha ancora un conto aperto col fenomeno jihadista (basta dare un’occhiata al numero dei foreign fighter tunisini in Siria).

L’Italia non ha sul tavolo l’opzione di voltarsi dall’altra parte. La Libia è un affare nostro che più nostro non si può: per la sicurezza, per il dramma dei flussi migratori, per l’approvvigionamento energetico, per gli interessi economici e per una strategia di politica estera dichiaratamente focalizzata sul Mediterraneo. Sul tavolo non c’è nemmeno l’ipotesi che siano gli arabi a occuparsene: non ne hanno le capacità e, in taluni casi, neanche l’intenzione. Roma avrà a quel punto la sola possibilità di premere per una coalizione la più ampia possibile, che intervenga sulla base di un mandato autorevole e con regole d’ingaggio chiare.

Si tratta, per ora, dello scenario peggiore. Occorre tenerlo presente, pur restando concentrati sul piano diplomatico. Quel che dobbiamo auspicarci, in questo frangente, è che l’iniziativa di Bernardino Leon faccia convergere Tripoli e Tobruk verso una bozza di accordo il più presto possibile. Un obiettivo che pare poca cosa ma che, allo stato dei fatti, è estremamente ambizioso. Per arrivarci l’Italia dovrà svolgere un ruolo di primo piano, tenendo aperti tutti i suoi contatti e, se necessario, spingendo per l’inclusione di attori regionali come Egitto, Turchia, Qatar ed Emirati nel processo di dialogo.

In queste ore, lo Stato islamico continua a minacciare sul terreno il governo di al Thani, l’unico la cui autorità è riconosciuta dalla comunità internazionale. Due giorni fa le autobombe ad al Qubah, a metà strada tra Derna (roccaforte jihadista) e Beida (sede dell’esecutivo), ieri i razzi Grad contro l’aeroporto di Tobruk: episodi che ricordano drammaticamente come il tempo a disposizione stia scadendo.


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