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Che fine ha fatto il Piano Juncker?

Che fine ha fatto il Piano Juncker per rilanciare l’anemica economia europea? Se ne parlò molto con tanto clamore lo scorso novembre quando venne presentato. Si sarebbe trattato di un programma  ambizioso di 315 miliardi di euro, nell’arco di tre anni a partire dal giugno 2015, per promuovere l’occupazione e la crescita.

La Commissione europea (Ce) ha proposto un Fondo europeo per gli investimenti strategici (Feis), che sarà istituito in stretto partenariato con la Banca europea per gli investimenti (Bei), ma la Ce di proprio ha messo sul piatto solamente 21 miliardi di euro (anche se una cinquantina di miliardi di euro sono stati in parte “promessi” ed in parte “impegnati” tra novembre e metà febbraio). Al Fondo sarà associato un organismo di consulenza – lo European Investment Advisory Hub – che aiuterà gli Stati dell’Ue a mettere a punto i progetti più efficaci.

Il Fondo dovrebbe costituisce, secondo i comunicati della Ce, “il fulcro dell’offensiva sugli investimenti” del Presidente Juncker, che mobiliterebbe almeno 315 miliardi di euro di investimenti pubblici e privati in tutta l’Unione europea. Saranno sostenuti soprattutto gli investimenti strategici, ad esempio nella banda larga e nelle reti energetiche, e le imprese di dimensioni più piccole.

La proposta istituisce inoltre un Polo europeo di consulenza sugli investimenti per contribuire all’individuazione, la preparazione e lo sviluppo di progetti in tutta l’Unione. Una riserva di progetti di investimento europei migliorerà infine l’informazione degli investitori sui progetti esistenti e futuri. Infine, secondo alcune interpretazioni, gli investimenti del Piano Juncker non verrebbero contabilizzati ai fine di parametri quali il rapporto tra l’indebitamento netto delle pubbliche amministrazioni ed il Pil, sarebbe, quindi, un cavallo di Troia per quella golden rule (esenzione della spesa pubblica in conto capitale dal computo del vincolo al deficit annuale) a cui diversi governi (quello italiano in prima linea) mirano da tempo.

Con il doppio obiettivo di illustrare il Piano (vero fiore all’occhiello di una Ce che appare sempre più pallida e sbiadita) il vice presidente della Ce, Jirki Katainen, sta facendo un road show che entro settembre lo porterà in 28 Paesi. In gennaio ha visitato per due giorni Roma ed incontrato esponenti del governo, dei sindacati e delle associazioni imprenditoriali.

Già allora è stato sottolineato che sul Piano permangono seri dubbi. Agli occhi della Ce, l’Italia è tra i Paesi che più hanno bisogno di un rilancio degli investimenti pubblici e privati per sostenere la ripresa economica, scalfire il pericolo della deflazione, aiutare la riduzione del debito. L’obiettivo del Feis è di attirare capitale privato. Molti investitori però sono cauti all’idea di partecipare all’iniziativa, anche se il Feis si sobbarcherebbe i rischi insieme al settore privato (assumendosi la prima perdita, ndr).

C’è una differenza nel profilo di rischio tra i prestiti della Bei e i prestiti del Feis. A questo riguardo, per dotare il bilancio comunitario di un cuscinetto di liquidità, la Ce intende creare un fondo di garanzia che attraverso contributi regolari provenienti dal proprio  bilancio dovrebbe raggiungere gli otto miliardi di euro entro il 2020. L’obiettivo della Commissione è sempre di assicurare al Fondo un effetto leva di 15. Troppo? Molti lo temono. L’esecutivo comunitario nota però che il recente aumento di capitale della Bei ha generato un effetto leva di 18.

Altro nodo riguarda il governo del Feis. Bruxelles vuole che la selezione dei progetti sia nelle mani di esperti indipendenti, mentre gli Stati membri vogliono influenzare le scelte, e per certi versi condizionano i loro versamenti nel capitale iniziale ad assicurazioni su questo fronte. La trattativa già in gennaio era in salita.

Un colpo al Piano è stato inferto il 23 febbraio dal presidente della Bei Werner Hoyer: “Se vogliamo tornare a crescere abbiamo bisogno di un’azione regolatoria per rendere l’Europa un ambiente più favorevole alla imprese di come è oggi”. Ciò sarebbe molto più importante di un’azione sugli investimenti pubblici.

Tanti progetti, poche certezze. Tanti impegni pubblici, pochi privati. Ma soprattutto poca innovazione. Il Piano Juncker lascia più di qualche perplessità alla Bei, l’istituto chiamato a un ruolo centrale nell’attuazione della strategia dell’esecutivo di Bruxelles. Ma al di là dei numeri di rito, è sugli scenari futuri che si concentra l’attenzione della Bei. “L’obiettivo del 2015 è passare dalla ripresa economica al rilancio della competitività attraverso investimenti e innovazione”, sottolinea Hoyer. Ma a Lussemburgo – sede della Bei – non mancano perplessità. “Non vedo abbastanza progetti per il settore privato”, ammette Hoyer. Un problema, visto che serve il coinvolgimento dei privati perchè il piano Juncker funzioni. “Vedo progetti orientati principalmente verso il settore pubblico”.

Ma c’è di più. “Si è evidenziato tanto il gap di investimenti, ma in Europa c’è un problema maggiore di gap di innovazione”. Il gap dii investimenti in innovazione, da sola, vale, secondo la Bei, 130 miliardi di euro, circa la metà del piano Juncker (che vale 315 miliardi). L’innovazione oggi la fanno le imprese, dunque i privati. Per cui a detta della Bei “occorre fare in modo che progetti privati in ricerca e sviluppo, quelli che permettono di avere innovazione, possano avere accesso agli strumenti finanziari dell’Ue”.

Qui serve un cambio di strategia politica. La Bei coopera con i commissari interessati, vale a dire Jyrki Katainen (Crescita e investimenti), Pierre Moscovici (Affari economici) e Valdis Dombrovskis (Euro), ma è il caso “iniziare a collaborare di più con Frans Timmermans e Kristalina Georgieva”, commissari rispettivamente per la Migliore legislazione e il Bilancio. “Il Feis per gli investimenti da solo non risolve i problemi”, sottolinea Hoyer. “Se vogliamo tornare a crescere abbiamo bisogno di un’azione regolatoria per rendere l’Europa un ambiente più favorevole alla imprese di come è oggi”.

Perché Hoyer parla solamente adesso? Le ragioni sono almeno tre:

a) Da un lato, a Bruxelles ed in alcuni capitali europee (tra cui Roma) non si è mai voluto ammettere che sette anni di recessione hanno avuto effetti deleteri sulla preparazione di progetti. Le imprese combattevano per sopravvivere più che per ampliare gli impianti esistenti o crearne di nuovi. La spesa in conto capitale si è fatta sempre più piccola: in Italia è passata dal 3% del Pil negli Anni Ottanta a meno dell’1% e appena il 20% dell’apposito fondo per la progettazione creato nel 1999 è stato utilizzato. Quindi, semplicemente mancano i progetti “pronti”, “cantierabili” e con effettive ricadute positive sull’economia del Paese.

b)  Da un altro, la nuova crisi greca (e l’opposizione nei confronti dell’unione monetaria crescente in molti Paesi) ha reso tutti più cauti. La calma dei mercati finanziari viene interpretata come la quiete prima della tempesta. Su ciò pesa la situazione degli istituti di credito; le voci della possibile istituzione di una bad bank non incoraggiano certo ad investire.

c) Da un altro ancora, la situazione ad Est (leggi Ucraina) e nel Mediterraneo (leggi Libia). Nessuno ha sino ad ora smentito le stime che un eventuale intervento in Libia contro l’Isis costerebbe 15 miliardi di euro al mese, che cadrebbero in gran misura sui contribuenti europei, spiazzando altri obiettivi.

In questo quadro, il Piano è quanto meno una “vittima collaterale”.


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