Et voilà! Mentre ad Atene non si riesce a mettere insieme la pita con la feta, il nostro pane e formaggio, Parigi non rinuncia ai croissant di Maria Antonietta: secondo una anticipazione di Handelsblatt Finance, il governo francese avrebbe chiesto a Bruxelles una estensione di altri tre anni per attuare il processo di convergenza verso il pareggio strutturale. Si userebbero due pesi e due misure, visto che Atene ha già un attivo strutturale del bilancio ed l’impegno a mantenere l’avanzo primario al 3% del Pil. Eppure Tsipras ha dovuto chinare il capo: deve restituire il debito, gli aiuti, anche se tutti sanno che in queste condizioni non ce la farà mai.
In vista degli esami di marzo, quando la Commissione dovrà stabilire se i governi dell’Eurozona abbiano rispettato i parametri del Fiscal Compact, Parigi preannuncia che il suo deficit per il 2015 diminuirà solo dello 0,3% rispetto all’obiettivo che avrebbe richiesto ulteriori manovre restrittive, pari allo 0,8% del Pil. Gli aggiustamenti previsti nel corso del 2015, secondo il ministro delle finanze francese Michel Sapin, sarebbero invece solo dell’ordine dello 0,2% del Pil. E comunque, per quanto riguarda il rispetto della regola del debito, Parigi non si assume alcun impegno temporale.
E’ la terza volta che la Francia chiede un rinvio della applicazione delle norme europee sulla stabilità dei bilanci pubblici, stavolta motivate con la stagnazione economica, avendo registrato nell’ultimo trimestre del 2014 una crescita di appena lo 0,1% rispetto al +0,7% di Spagna e Germania. La situazione di Madrid e di Berlino è comunque estremanente contrastata, visto che il contributo dell’export alla loro crescita è stato addirittura negativo: -0,2% del Pil in Spagna e -0,1% in Germania. Esportare non basta, avere una bilancia commerciale in attivo neppure, se si vende all’estero a prezzi inferiori ai costi interni.
La situazione è ancora più grave per la Francia, che ha visto nel 2014 un contributo dell’export alla crescita del Pil addirittura negativo per lo 0,3%. La strategia della deflazione competitiva si sta dimostrando fallimentare: la crescita dipende unicamente dalla domanda interna, per consumi ed investimenti. Per questo motivo, la Francia è così restia ad adottare nuove correzioni fiscali: rischia di indurre una recessione.
Ci sono, naturalmente, ragioni politiche interne: il Front Nationale è accreditato di un 30% di consensi elettorali. La sua estromissione dalla grande manfestazione parigina, convocata per commemorare le vittime degli attentati a Charlie Hebdo ed al negozio kosher di Parigi, cui sono stati invitati tutti i partiti ad eccezione di quello guidato da Marine Le Pen, non ha portato ad una battuta d’arresto del FN. All’interno della Francia ci sono troppe tensioni, dai disordini endemici nelle banlieue, al timore per l’attecchire dell’estremismo jihaista, alle mai sopite tensioni antisemite. Anche il Presidente Hollande, come già il suo omologo italiano Napolitano, ha dovuto tirare giù in fretta e furia la carta del giovanilismo al governo. Ha nominato Primo Ministro il corso Manuel Valls, che ha affidato a sua volta al trentaseienne Macron il dicastero dell’economia, dopo le dimissioni di Arnaud Montebourg che si era dimesso da questo stesso incarico in dissenso sulle politiche di austerità promosse da Valls.
Come è già accaduto la scorsa settimana nei confronti della Grecia, quando il suo premier Tsipras ha chiesto a Bruxelles un ammorbidimento delle condizioni imposte per ottenere gli aiuti del Fondo salva Stati, sono state la Spagna ed il Portogallo ad irrigidirsi: i loro governi, avendo per primi subìto e conseguentemente imposto alle rispettive popolazioni le ricette amare della austerità, si vedrebbero scavalcati dall’opposizione interna. Podemos, in Spagna, ha già un consenso del 30%, superando entrambi i due partiti storici, con i popolari in picchiata ed i socialisti in flessione. Il premier Mariano Rajoi, che sta puntando ad ottenere qualche successo sul piano della occupazione prima delle elezioni di maggio, soffre già per il traino che la vittoria di Syriza ha esercitato su Podemos. Non può permettere che si facciano sconti alla Francia.
Siamo al paradosso: sono i governi che hanno dovuto imporre misure di austerità al proprio Paese sperimentando quanto siano state pesanti le conseguenze sociali, in termini di caduta dei redditi e dell’occupazione, ad essere i difensori più strenui difensori di queste politiche. Sarebbero scavalcati a sinistra: dopo la Grecia, i movimenti anti-austerity potrebbero avere un rilevante successo elettorale anche in Spagna e Portogallo. I governi che cercano di resistere alla adozione ferrea delle misure di rigore, come quello di Parigi, vedono montare la protesta a destra, con il FN, e temono lo squagliamento a sinistra.
L’Europa si è cacciata in un guaio grosso: chi ha subito l’austerità, rimane vittima e si fa carnefice. Chi, come ora la Francia, cerca di resistere per evitare altre inutili sofferenze sociali e danni all’economia, si trova tutti contro, all’interno e fuori. Da questa trappola bisogna uscirne tutti, insieme, con regole nuove. Prima che sia troppo tardi: non solo i partiti politici tradizionali rischiano di essere travolti, ma anche tutto ciò che di buono l’Europa ha costruito in cinquant’anni.