No, i due forni no. Va bene la realpolitik, meglio ancora la flessibilità diplomatica, il parlare con tutti di tutto, evitare dichiarazioni di guerra. Ma per favore, risparmiatoci l’eterna riedizione della politica dei due forni o delle due sponde che dir si voglia, di andreottiana memoria.
E’ questa, invece, la tentazione che matura nel governo Renzi a proposito dei rapporti con la Russia di Putin, ma non solo. Perché la missione del ministro degli esteri Gentiloni in Iran appare anch’essa toccata dalla stessa doppiezza. Intendiamoci, l’Italia ha una tradizione di buoni rapporti con Mosca. Ciò vale anche per Teheran. E come non ricordare le illusioni sul riformismo degli ayatollah coltivate negli anni ’90 da Luciano Violante? L’uscita dell’Iran dal limbo è un contributo positivo alla distensione, ma non se passa per il riarmo nucleare e la minaccia costante di distruggere Israele. Per non parlare del sostegno a terroristi di varia matrice e natura.
In fasi di acuta crisi nelle relazioni internazionali, quando viene a mancare il vecchio paradigma di riferimento, è estremamente utile un Paese ballerino in grado di fare da collegamento, di sfiorare gli intoccabili pesino. Certo, occorre stare attenti alla musica. Ma soprattutto non bisogna illudersi di poter fare diventare pontefici senza sapere esattamente su che sponda stare. Al contrario, è sempre meglio, e più utile, mettere le cose in chiaro.
Renzi cerca l’aiuto di Putin per affrontare la crisi libica. Ma siamo sicuri che la Russia sia ancora una potenza globale come l’Unione sovietica? O non è forse questa l’illusione che Putin vuol dare per dimostrare che il mondo non può fare a meno di lui? In Medio Oriente esiste un canale particolare che lega Mosca al Cairo, così come a Damasco. Mentre adesso Ankara, lo storico nemico, si fa avanti perché il dispotismo orientale attira sempre più anche Erdogan.
La stabilizzazione della Libia è un compito immane, tanto più dopo gli errori commessi da Francia e Inghilterra, che non può essere affrontato solo dall’Italia. Vero. Ma o il Mediterraneo diventa una priorità per l’Unione europea, oppure non c’è possibilità che si trasformi nel mare di pace a lungo sognato. Se resta, come è ancora oggi, nelle mani di potenze o subpotenze che usano questo scacchiere in modo strumentale, allora sarà sempre un campo di battaglia.
Il compito principale spetta ai Paesi del nord e del sud del Mediterraneo. Così come la guerra all’Isis nel Levante tocca in prima persona ai Paesi islamici di quell’area. Il Califfato non è al Qaeda, un gruppo terroristico per quanto esteso, da combattere con la Cia. Ha un territorio, ha un esercito (per quanto ancora mal armato), semmai è un misto tra l’Afghanistan dei Talebani e la Somalia. Iracheni da una parte e turchi dall’altra dovrebbero avere tutto l’interesse a sconfiggerlo, se non lo fanno è perché lo usano.
Ciò vale ancor di più per le due grandi potenze islamiche, l’Arabia saudita e l’Iran. Il caos attuale è conseguenza della competizione tra loro. David Gardner ha scritto sul Financial Times che l’Isis si batte solo se sauditi e iraniani, pur divisi da una mutua ricerca di egemonia, si alleano contro un nemico comune. Ha ragione, purtroppo non è ancora così forse perché, nonostante gli orrori che semina, il Califfo non è ancora percepito come una seria minaccia strategica. Così, il caos può far comodo ora all’uno ora all’altro. Un’altra dimostrazione che il forno deve essere uno solo, anche se possono usarlo più panettieri.
Ciò vale per lo stesso Putin. Cosa fare con lui è un dilemma che divide non solo l’Italia. Nel 2002, quando l’ex spia del KGB sembrava un alleato fondamentale contro il terrorismo islamico, Silvio Berlusconi arrivò a proporre che si aprissero le porte della Nato, quasi evocando l’Europa dall’Atlantico agli Urali sognata da Charles de Gaulle. Una ipotesi del tutto irrealistica se è vero che il limite alla estensione orientale della Nato è stato un punto fermo fin dai tempi di Gorbaciov. E’ dubbio se ci sia stato un impegno formale da parte degli americani, ma questo era il punto allora ed è il punto ancora oggi. Putin si percepisce come altro dall’Occidente, aspira ad essere il perno tra Europa e Asia, come i nazionalisti russi prima dell’arrivo dei bolscevichi che avevano una cultura cosmopolita e una missione globale. Se è così, va trattato con rispetto, ma va tenuto a bada.
Fin qui, abbiamo fatto un ragionamento puramente geopolitico. Se entriamo nel campo dei valori, la tentazione dei due forni diventa pericolosa. Il dispotismo orientale non è una forma di governo come tante altre, è un solco con l’Europa e l’Occidente. Ciò vale anche per la Cina, naturalmente. Ma, vista l’immensa differenza culturale, è più facile prendere posizione nei confronti di Pechino (salvando sempre gli affari, ça va sans dire). La Russia è cristiana. La Russia è parte della nostra cultura. Tanto più dovrebbe essere importante una battaglia delle idee contro il puntinismo, malattia senile del panslavismo (quello della Terza Roma); aiutando così le sparute forze di opposizione liberale e democratica a crescere, costruendo nel tempo uno sbocco diverso per quell’immenso Paese le cui mammelle sono sempre state disseccate da classi dirigenti a un tempo predatrici e inefficienti.
Tutto questo ovviamente non può essere squadernato da Renzi nella sua visita al Cremlino, non fa parte delle regole diplomatiche. Ma dovrebbe stare nel suo bagaglio, per impedirgli di lanciarsi in nuovi giri di valzer nei quali troppo a lungo siamo stati maestri al punto da diventare inaffidabili.
Stefano Cingolani