Concordo in pieno con Giuliano Ferrara quando dice che per resistere alla devastazione del Califfo c’è bisogno dell’apologetica. Ma l’apologetica chiama a sua volta la fede. Non per nulla, tutti i più grandi apologeti della chiesa erano santi. E anche in epoca contemporanea, i frutti migliori dell’apologetica – che c’è, basti pensare a un Messori o a riviste come Il Timone – provengono da uomini o iniziative dove la fede non è un accessorio ma il perno attorno a cui tutto ruota. Poi è chiaro, sarebbe auspicabile che da fenomeno marginale e di nicchia l’apologetica tornasse ad avere, in primis nella chiesa, la considerazione che meriterebbe. Ma temo che ci toccherà aspettare un bel po’, stante l’assoluto stato di devastazione in cui versano le facoltà di teologia cattoliche, in Italia e non solo, che di cattolico hanno solo il nome. Le cause di cotanto sfacelo sono note ed è inutile tornarci sopra – in sintesi: andarono per suonare e furono suonati, per dire del tentativo di rincorrere la modernità, soprattutto nel secondo dopoguerra, che ha significato l’assunzione acritica delle sue categorie; quello di cui invece manca la consapevolezza, in tante parti del mondo cattolico, è che il cedimento della cultura cattolica alle sirene della modernità non solo non ha significato un riavvicinamento tra chiesa e società, come era negli auspici dei novatori, ma al contrario ha comportato lo smottamento dell’unico argine al nichilismo dell’Occidente che del fondamentalismo islamico è il miglior alleato. Per cui tanto di cappello a gente come Rodney Stark o Eric Zemmour, che pur partendo da una prospettiva assolutamente laica, sanno raccontare la bellezza dell’Occidente di più e meglio del vuoto pneumatico di certa pubblicistica sedicente cattolica, viziata com’è da un mix micidiale di irenismo miope, sudditanza culturale e malintesa carità, che pur di mostrarsi dialogante con chi del dialogo se ne impipa, è disposta a fare strame della propria identità. Col risultato che quando e se il malato si riprenderà, sarà troppo tardi. E’ già tardi. Ferrara ha ricordato come in Oriente ci sono gruppi di cristiani che si armano. Non è la prima volta che succede. Lo fecero i Vandeani nella Francia giacobina, lo fecero i Cristeiros in Messico nel secolo scorso. Per non parlare dei Maccabei, i setti fratelli ebrei la cui rivolta contro Antioco IV Epifane è raccontata negli omonimi libri dell’Antico Testamento, e che tanto la chiesa cattolica quanto quella ortodossa considerano santi. Poco più di un anno fa, prendendo spunto da un discorso del cardinale di Vienna, Christoph Schönborn, scrivevo a proposito delle persecuzioni che una delle sintesi migliori sulla domanda “che fare?” si trova in “Resistenza e resa” di D. Bonheffer, pastore e teologo protestante ucciso dai nazisti nel carcere di Flossenburg per la sua opposizione al regime. “Mi sono chiesto spesse volte – scrive Bonhoeffer – dove passi il confine tra la necessaria resistenza e l’altrettanto necessaria resa davanti al «destino»”. Per poi aggiungere “…dobbiamo affrontare decisamente il «destino»…e sottometterci ad esso al momento opportuno”. Alla luce di quanto sta accadendo oggi in tante parti del mondo, e senza dimenticare che oltre a quella del fondamentalismo islamico è in atto in Occidente anche una persecuzione di stampo laicista, meno appariscente ma non meno violenta di quella dei tagliagole dell’Isis, non sono più così convinto.
Una nuova apologetica (e non solo) per resistere alla devastazione
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