“La vita è come il mare: è bello farci il bagno ma non gliene frega niente se non sai nuotare”
Anonimo Dottore
Esiste un importante convitato di pietra in tutte le discussioni sulla crisi e sulle ricette per il rilancio della crescita: il Mezzogiorno, una parte fondamentale e spesso dimenticata, che rappresenta circa il 35% della popolazione e circa un quarto del PIL italiano. Lo ha detto qualche giorno fa Pier Luigi Bersani alla trasmissione 8e1/2 richiamando finalmente l’attenzione. Anche se questo è un tema su cui Confassociazioni aveva presentato già il 18 dicembre scorso a Napoli il suo Manifesto per l’Innovazione del Sud Italia.
La forchetta con il Nord aumenta. La crisi ha gettato le regioni meridionali in una situazione senza sbocco, per mancanza di investimenti privati e pubblici e progressivo impoverimento del capitale umano. È facile prevedere che in questa situazione il Sud non saprà cogliere la ripresa e il suo ritardo si trasformerà in una zavorra per la ripresa.
D’altra parte, la crisi è stata pesantissima: la recessione produttiva degli ultimi anni accompagnata dalla deflazione dei prezzi, dalla contrazione dei consumi e dalla disoccupazione in continua crescita è stata una combinazione micidiale che ha avuto effetti ancora più marcati sul Mezzogiorno. I dati Istat sono chiari: il Sud ha un PIL pro capite di 17,2mila euro mentre il Centro-Nord ha un PIL pro capite di 31,7mila euro. Il valore registrato nel Mezzogiorno è quindi inferiore del 45,8% rispetto a quello del Centro-Nord. I trasferimenti pubblici compensano in parte questa enorme differenza, ma alla fine la differenza si può osservare tutta nei consumi delle famiglie va dai 18.300 euro del Centro-Nord ai 12.500 del Mezzogiorno.
Per non parlare della differenza nella qualità dei servizi pubblici e del costo della vita che non emergono in modo chiaro. Affitti più alti o beni più economici, servizi più a buon mercato o meno: tutti fattori che nella vita concreta contano quanto il PIL procapite. È per questo che tutti i dati Istat raccontano che la crisi ha inciso in maniera forte ma non è la vera causa della desertificazione del Sud. Basilicata, Puglia e Calabria, per esempio, già prima del 2008 crescevano meno dell’1% all’anno. Per converso, Emilia Romagna, Marche e Lazio crescevano al ritmo del 2%.
È per questo che è importante sottolineare come la questione meridionale sia, ancora una volta e purtroppo, al centro della crisi ma dietro le quinte nel dibattito. Anche perché che le cause e gli impatti della crisi sul Sud li conosciamo tutti: i vincoli di bilancio pubblico, nazionale e locale che hanno precluso la possibilità di sviluppare un serio ed efficace progetto di completamento delle infrastrutture materiali e digitali del nostro Mezzogiorno.
E gli effetti di tali mancanze politiche ed economiche sono sotto i nostri occhi. L’ultimo rapporto Censis ce ne ha descritto alcuni passaggi fondamentali, a partire dalle conseguenze generate dal tasso di denatalità. Come sappiamo infatti, il nostro Paese presenta uno dei tassi di natalità più bassi a livello mondiale: 8,5 bambini nati per 1.000 abitanti. Un tasso dove pesa l’incertezza occupazionale ed economica, anche e soprattutto al Sud. Ma il rischio desertificazione del Sud non attiene solo alla componente umana ma riguarda anche la capacità occupazionale e produttiva.
Le chiacchiere stanno a zero perché anche il rapporto Svimez dice chiaramente che al Sud non ci sono posti di lavoro e, di conseguenza, la popolazione si impoverisce e si fanno sempre meno figli. I dati sono terribili: le famiglie povere del Meridione sono aumentate del 40% nel 2014. Nel 2013 il numero dei morti ha superato quello dei nati e 116mila persone hanno lasciato il Sud. Per non parlare dei consumi delle famiglie, scesi di quasi il 13% dal 2008 in poi. Ma c’è di più. Tra il 2008 e il 2013, delle 985 mila persone che in Italia hanno perso il lavoro, oltre la metà (583mila) è residente nel Sud. Ecco perché la crisi ha colpito soprattutto le regioni meridionali dove, pur essendo presente appena il 26% degli occupati italiani, si concentra il 60% delle perdite di impiego.
Come uscire da questa spirale perversa? Intanto, parlandone e non lasciando il Sud al suo destino anche solo per disattenzione. Ma parlarne, com’è chiaro, non basta. Non possiamo continuare, come è successo nel 2014, ad investire meno del 5% dei fondi per le ferrovie al Sud, a ridurre il cofinanziamento per i fondi strutturali comunitari nelle regioni meridionali, a tagliare i fondi per gli asili. È necessario invertire la rotta. Ma la domanda più importante è: per andare dove? La risposta alla prossima puntata…
Una versione di questo articolo è stata pubblicata sull’Huffington Post