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Memorie d’Albione: il tradimento delle banche

E così il Regno Unito, più o meno faticosamente, sta recuperando la via della crescita, dicono gli osservatori. E ci sta riuscendo malgrado le sue banche, viene da pensare analizzando i dati contenuti nell’ultima survey che l’Ocse dedica all’UK.

Già. Le banche inglesi hanno patito forse più delle altre lo sboom seguito alla crisi del 2008. E soprattutto hanno generato un costo sociale enorme, atteso che lo Stato si è dovuto far carico dei loro problemi finanziari.

Come se ciò non bastasse, le banche inglesi sono riuscite nel miracolo di tagliare il credito alle imprese non finanziarie, aumentando al contrario quello alle famiglie. Ciò ha favorito il crollo del tasso di risparmio familiare, facendo schizzare l’indebitamento privato di questo settore, e al contempo ha sostenuto il boom dei corsi immobiliari, che così tante preoccupazioni ha sollevato e solleva fra i regolatori.

Insomma, le banche inglesi hanno in qualche modo tradito la loro vocazione di volano dell’economia nazionale, finendo col somigliare semmai a un fardello di cui la comunità si è dovuta far carico per evitare un crollo ancora più rovinoso.

Certo, non è tutta colpa loro. Il problema è che molte banche inglesi rivestono tuttora una rilevante importanza sistemica derivante, oltre che da una certa consuetudine storica, dalla rilevanza degli asset di cui dispongono. Parliamo di valori che oscillano intorno al 400% del Pil inglese e che, riporta Ocse, è previsto raddoppino da qui al 2050.

A fronte di ciò le banche inglesi mostrano debiti esteri per circa il 70% del Pil, collocandosi al terzo posto nella relativa classifica Ocse, che vede al primo posto l’Irlanda e al secondo l’Olanda.

Tutto ciò a significare che le banche inglesi sono estremamente sensibili all’andamento del contesto esterno. E l’economia nazionale di conseguenza.

Un dato usualmente poco osservato mostra come ormai da diversi anni il lato dei redditi della bilancia dei pagamenti abbia iniziato a contribuire negativamente al saldo del current account, già aggravato dall’andamento declinante delle esportazioni, lasciando ipotizzare che il crack del 2008 abbia innescato una sorta di bank run sulla sterlina, con le conseguenza che abbiamo visto sul cambio.

E in effetti, nota Ocse, il deficit delle partite correnti sta ancora intorno al 6%, e questo non è certo un buon viatico per lo stato di salute dei conti nazionali.

Lato fiscale, il contributo negativo è stato anche peggiore. L’Ocse sintetizza in un box i numerosi interventi che il governo ha dovuto mettere in gioco per salvare le sue banche. Una panoplia di decisioni che vanno dalla ricapitalizzazione, ai prestiti, dalla fornitura di garanzie alle nazionalizzazioni. Come sempre, la patria del libero mercato si scopre sempre molto interventista, quando si tratta di salvare la pelle.

Come risultato, la capitalizzazione delle banche è migliorata e gli istituti hanno ridotto alcuni palesi fragilità. Per dirvene una, gli asset fuori bilancio delle banche inglesi (ricordate come funzionava lo splendido mondo pre-2008?) si sono ridotti dai quasi mille miliardi del 2009 a poco più di 400. Noto che la quota di prestiti cartolarizzati è passata da oltre 400 miliadi e meno di 200, la quota di covered bond è rimasta pressoché costante, mentre sono crollati gli investimenti negli special purpose vehicles (SPVs), che sfiorano i 350 miliardi di sterline ormai ridotti a poche decine.

Quella che non è migliorata è stata l’erogazione di credito all’economia produttiva. “Il credito netto alle imprese è stato declinante sin dal 2009, più per le grandi imprese che per le piccole”. Ciò ha costretto le imprese più grandi a rivolgersi al mercato di capitali per i loro fabbisogni, senza però che ciò abbia impedito “una drammatica caduta nei prestiti bancari”.

Al tempo stesso le piccole e medie imprese non hanno avuto la possibilità di rivolgersi ai mercati per avere finanziamenti, quindi sono loro ad aver patito più di ogni altra impresa le conseguenza del crediti crunch.

“Al contrario, i prestiti alle famiglie sono ripresi, seppure a un moderato passo, sin dal 2010″, nota Ocse.

Per darvi un’idea di quello che è successo, osservo solo che i prestiti alle imprese medio piccole inglesi fra il 2010 e il 2012 sono sprofondati. In Italia questo non è successo. Il credito è diminuito, ma non è scomparso.

In questa scelta di prestare alle famiglie, magari mettendo a garanzia un bel mattone, invece che alle imprese scorgo un’altra sottile sfumatura del tradimento delle banche inglesi. Che tuttavia, come ogni tradimento porta con sé le conseguenze.

La prima è che il governo, ancora una volta, ha dovuto metterci una toppa, istituendo diverse iniziative a supporto dei prestiti alle SMEs, mettendo anche dei fondi sul tavolo. Sempre perché Albione è la patria del libero mercato.

La seconda è che le politiche di prestito alle famiglie hanno contribuito a far risalire il mattone, che così tanto ha contribuito al rilancio della domanda interna, ma al tempo stesso hanno aumentato il rischio a carico delle banche derivante da un possibile rialzo dei tassi, visto che questi debiti sono assai sensibili.

Ma non solo: è aumentato anche il rischio a carico delle famiglie. Gli indici dei prezzi delle case, nota l’Ocse, risultano elevati, sia il price-to-rent ratio, sia il price-to income. E ciò vuol dire che i debitori, i cui tassi di risparmio sono già al lumicino, si sono dovuti far carico di spingere il pil assumendone il rischio sulle loro spalle. Tanto più in un paese dove sono così diffusi gli interest-only-mortgages, ossia quei mutui dove paghi gli interessi fino a quando non devi restituire interamente il prestito. “Un problema, secondo l’Ocse”.

Sicché al tradimento dei banchieri bisogna sommare anche quelle consumato dalle famiglie, che adesso hanno accumulato 1.187 miliardi di sterline di debiti che prima o poi dovranno essere ripagati.

D’altronde per tradire, bisogna sempre essere (almeno) in due.

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