Non voglio mancare di rispetto per nessuno, ma la vera fortuna del moschettiere guascone d’Artagnan-Renzi è anche quella di non avere, tra i suoi oppositori interni, un cardinale Richelieu. La verità è che il minimo comun denominatore della minoranza del Pd è costituito dal risentimento personale nutrito nei confronti del suo segretario, visto come un alieno calato sul pianeta per soggiogare i terrestri postcomunisti.
Del resto, basta pensare allo scontro al calor bianco sull’Italicum. Oggi andrà nuovamente in scena in un’assemblea di deputati a torto considerata come una specie di resa dei conti finale. Qualunque iscritto o elettore del Pd che non sia accecato da un pregiudizio antirenziano, infatti, come potrebbe giudicare la scelta di chi si rifiutasse di votare un progetto di legge elettorale sicuramente migliore di quello – pessimo – da lui stesso votato poco tempo fa senza batter ciglio? Lascio al lettore la risposta.
A Bersani le preferenze “fanno schifo” (come ha dichiarato), ma vuole più preferenze e meno nominati. Ma una battaglia politica degna di questo nome può essere sostenuta con questi risibili argomenti? Se il Pd in periferia non sembra stare tanto bene (i cacicchi locali fanno il bello e il cattivo tempo), a Roma rischia una sorta di sonno della ragione.
In realtà, il Partito democratico non ha ancora risolto un dubbio amletico: consolidare la sua asserita vocazione maggioritaria in un sistema tendenzialmente bipartitico e presidenzialista, o confermare la strategia ulivista in un regime pluripartitico e parlamentare.
Ambedue le prospettive, tuttavia, presuppongono in ogni caso – al di là del meccanismo di voto che si lascia preferire – la ricerca del più ampio consenso possibile degli interessi che si riconoscono nel centro. Su questo punto, in fondo, si sono infranti i sogni di gloria di Romano Prodi e Walter Veltroni.
Il Pd, insomma, è obbligato a slittare verso il centro, e il suo futuro è legato alla sua capacità di rappresentare gli elettori intermedi (area socialmente composita, che sceglie da che parte stare non in base alle ideologie, ma alle concrete offerte presenti nel mercato politico. E ciò vale anche per la classe operaia e i ceti popolari).
Questo Renzi l’ha capito, anche se poi il suo eclettismo culturale talvolta si traduce in un trasformismo pasticcione (dalla riforma del Senato al “tesoretto” in economia). Certi suoi avversari, invece, sembrano ancora affezionati al vecchio e caro rassemblement della “Cosa rossa”. Qualcuno se la ricorda? La sinistra italiana si sta ancora leccando le ferite per quella stagione disastrosa.