Alcune espressioni che utilizziamo rappresentano il trionfo del “luogo comune”; in un momento storico come l’attuale, percorso dall’esigenza di ritornare nel profondo della realtà, occorre superare la “tattica degli slogan” per ricostruire una “strategia integrata e partecipata del progetto umano”.
Penso, ad esempio, all’inganno contenuto nell’espressione “società civile”; essa sembrerebbe indicare una società perfetta, un luogo dove vivono coloro che – da umani – hanno raggiunto la perfezione, la civiltà. Ebbene questo luogo, se guardiamo al mondo che c’è, semplicemente non esiste.
In ogni forma di organizzazione della convivenza umana, ormai, risulta sempre più evidente la compresenza di elementi di civiltà (l’acquisizone di valori universali, la pratica democratica, il livello di benessere acquisito, le capacità di innovazione) e di elementi di inciviltà (la nostra incapacità di incarnare i valori, la degenerazione dei processi democratici, l’esasperazione innaturale della competizione, la separazione fra i tempi della vita); tale compresenza ci dice che esistono soltanto realtà “in divenire”, in ricerca di perfezione, e che tale processo di transizione, articolato in modo originale in ogni realtà, si fonda sulla impossibilità per ciò che è umano di essere perfetto.
Parlare di “società civile”, ed attribuirsi tale medaglia, fa il paio con la convinzione che il processo di civilizzazione possa dirsi completato, che qualcuno, nel mondo, sia in grado di spiegare la civiltà agli altri e che molto di ciò che accade non coinvolga la responsabilità dell’intera ed unica umanità; spesso dimentichiamo che il nostro mondo è profondamente interrelato e ciò comporta che non si possa pensare di esistere come monadi perfette, al di là della realtà. Ciò che è male va individuato e colpito; ma, prima di bombardare, la cosiddetta “società civile” dovrebbe ricominciare a pensare a ciò che significa, nel terzo millennio, convivere in un mondo incerto.