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Pensioni Inps, i consigli di Federspev

Riceviamo e volentieri pubblichiamo

Ho trascorso a Potenza, in occasione della festa del medico, il 7 dicembre u.s. una bellissima giornata per la quale ringrazio ancora l’ex presidente dell’Ordine dott. Enrico Matteo Cicchetti e l’attuale presidente dott. Rocco Paternò. Ho avuto, inoltre, l’occasione di rivedere gli amici dott. Rocco Fatigante, presidente della sezione Federspev di Potenza, ed il dott. Franco Vinci.

Nella mia qualità di presidente nazionale Federspev, mi era stato affidato l’incarico di trattare il tema dello stato dell’arte previdenziale che mi appresto ad aggiornarvi al 20 aprile 2015 in attesa dell’imminente sentenza della Corte Costituzionale sul blocco della perequazione effettuato dal governo Monti sulle pensioni superiori a tre volte il minimo INPS per gli anni 2012/2013). Federspev, per chi non ci conosce, è l’acronimo di federazione sanitari pensionati e vedove che conta oltre 20.000 iscritti (medici soprattutto, farmacisti e veterinari).

E’ grave la situazione in cui si dibatte il nostro sistema previdenziale dopo i ripetuti pesanti abbattimenti operati sulle pensioni dei dipendenti pubblici e privati,con i vari blocchi della perequazione ed i vari contributi di solidarietà effettuati negli ultimi nove anni, con una perdita del potere di acquisto delle nostre pensioni di oltre il 20%.

E non meno grave è la situazione pensionistica dei nostri giovani il cui futuro previdenziale vedo nero se non si realizzerà una urgente revisione dei meccanismi di rivalutazione, anche con forme indicizzate miste, e se non si realizzerà una vera previdenza integrativa chead oggi, nel pubblico impiego non è ancora partita.

A ciò si aggiungano gli effetti perversi che la deflazione rischia di avere sull’assegno di chi, nei prossimi anni, si ritirerà dal lavoro. Con il sistema contributivo la pensione sarà, infatti, un frutto dei contributi che i lavoratori avranno accumulato e che ogni anno l’INPS rivaluta. Un po’ come quando si portano, o meglio sarebbe dire si portavano, i soldi in banca e gli istituti di credito pagavano un interesse. Il tasso d’interesse pagato dall’INPS,in base alla legge Dini 335/95 è pari alla crescita media del PIL nominale nei 5 anni precedenti (il PIL nominale, detto in soldoni, è la somma tra il PIL reale e l’inflazione).

Ed ecco il problema: se il PIL non cresce e l’inflazione arretra, diventando deflazione, come purtroppo sta accadendo,i contributi versati all’INPS, invece di aumentare diminuiscono.

Una beffa: è come se si portassero 1.000 euro in banca e l’anno dopo se ne trovassero 990. Ed è quello che è successo nel 2014 quando si è avuto un tasso di capitalizzazione di segno negativo stimato a meno 0,024%. Per la prima volta, insomma, 1.000 euro accantonati dall’INPS tradotti in pensione varranno 999,90 euro. Non era mai successo che il montante contributivo fosse a rischio erosione. E’ la prima volta in assoluto da quando esiste il sistema contributivo.

Un solo anno, ovviamente, incide poco nel conteggio finale, ma se la crisi dovesse essere lunga e la crescita una chimera, allora sarebbero guai seri. In proiezione, quindi, se il PIL, che misura la capacità produttiva e la crescita dell’economia, aumentasse in media dell’1,5-2% anno un lavoratore dipendente di 30 anni quando a 67 lascerà il lavoro incasserebbe una pensione pari al 71% dell’ultimo stipendio.

Ma se la crescita del PIL fosse zero, quella stessa pensione non supererebbe il 45% circa dell’ultimo stipendio. Se non si ricomincia a crescere, insomma, e se non arriva un po’ di “sana” inflazione saranno dolori per i futuri pensionati. I 20/40 enni di oggi potranno trovarsi un tasso di sostituzione netto (rapporto tra la prima pensione e l’ultima retribuzione netta) compreso tra il 40 e il 70/75%. Nella migliore delle ipotesi saranno quasi allineati alle pensioni retributive, nella peggiore alla metà.

Pertanto, ad esempio, se un lavoratore dipendente trentenne che oggi ha un reddito netto di 1.000 euro non avrà un’attività contributiva continuativa, ma lunghi periodi di sospensione (senza contributi) a 67 anni prenderà, nella peggiore delle ipotesi, circa 400 euro netti, e cioè oltre 100 euro in meno dell’attuale minimo, senza possibilità alcuna di avere l’integrazione al minimo da parte dello Stato come avviene ora.

Si tratta quindi di un gravissimo problema che dovrà essere risolto a livello politico dando maggiore stabilità al mercato del lavoro che secondo il Presidente Renzi, dovrebbe realizzarsi con il Jobs Act, ma che personalmente vedo poco realistico, anche alla luce degli ultimi dati ISTAT sulla disoccupazione passata a marzo dal 12,1 al 12,7%.

La politica “tutta” invece di scagliarsi contro i “pensionati d’oro” a 2.000 -3.000 euro mensili lordi che, dopo una vita di lavoro ed “effettive” contribuzioni usufruiscono di un’”onesta” pensione farebbe meglio a:

1)       diminuire i suoi esorbitanti costi;

2)       favorire la piena occupazione ed incrementare le retribuzioni dei lavoratori;

3)       rivalutare i montanti contributivi, modificando il ridicolo parametro della variazione del PIL quinquennale;

4)       incrementare i coefficienti di trasformazione anche mediante l’incremento delle aliquote contributive;

5)       dividere nettamente la previdenza dall’assistenza;

6)       razionalizzare le risorse umane dell’INPS contenendo i costi di gestione e rendendo effettivo l’invio della famosa “busta arancione” con la quale i lavoratori conoscerebbero finalmente il loro destino previdenziale;

7)       lottare contro le false pensioni di invalidità,contro le pensioni e i vitalizi frutto dei privilegi e di pluri incarichi,contro la spaventosa evasione-elusione fiscale (100 miliardi anno),contro la corruzione (60 miliardi anno).

Cosa ha fatto, invece, il governo con la legge di stabilità 2015?

–          Ha aumentato l’imposta sostitutiva sulle rivalutazioni dei fondi TFR dall’11 al 17%;

–          ha ridotto le esenzioni fiscali di cui godevano le polizze vita private e no profit;

–          ha raddoppiato quasi (dall’11,5 al 20%) la tassazione sui fondi delle pensioni integrative,per cui l’Italia diventerà l’unico paese europeo dove si colpisce la previdenza integrativa invece di incentivarla;

–          ha colpito le casse previdenziali private (quindi l’Enpam) la cui tassazione dei patrimoni passa dal 20 al 26% anche con effetto illegittimamente retroattivo per il 2014.

Il che comporterà gravi ripercussioni sulle future pensioni.

Unico elemento positivo è che non ha previsto ulteriori penalizzazioni sulle pensioni in essere.

Dovrebbe rammentare la politica che il risparmio previdenziale merita una grande attenzione perché è l’unico che consente di proteggerci dal cosiddetto rischio di longevità (cioè che la vita effettiva sia più lunga di quella attesa) con il pericolo che i futuri anziani non abbiano risorse sufficienti per i loro bisogni.

Inoltre aumentando l’imposizione sui fondi pensione si va contro quel modello europeo chiamato EET, acronimo che sta per “esenzione, esenzione, tassazione”: esenzione per i contributi alla previdenza integrativa, esenzione dal reddito da investimento degli enti previdenziali, tassazione delle prestazioni pensionistiche (generalmente molto più bassa di quella italiana: una pensione di 1.500 € lordi mensili, infatti, paga in Italia 4.000 € anno di tasse, in Spagna 1.700, in Inghilterra 1.400, in Germania 39).

E, dulcis in fundo, recentemente è stato chiamato alla presidenza dell’INPS Tito Boeri, professore bocconiano. Nulla da eccepire sul curriculum accademico del prof Boeri, anche se logica ed esperienze pregresse (professori Monti e Fornero su tutte) avrebbero forse consigliato fosse individuata una personalità di ampia e consolidata esperienza e competenza in campo manageriale e politico-sociale.

Boeri, fra l’altro, è molto affezionato ad una sua vecchia ipotesi di taglio sulle attuali pensioni retributive superiori a 2.000 – 3.000 € lordi mensili da ricalcolare con il meccanismo contributivo al fine di ricavare circa 4 miliardi di  euro anno da destinare in modo permanente ad “un fondo di solidarietà intergenerazionale” finalizzato a corroborare le anemiche pensioni dei futuri pensionati soggetti al meccanismo di calcolo contributivo (cioè i dipendenti assunti dallo 01/01/96). Poco gli importa che la sua ipotesi cozzi contro principi costituzionali consolidati (artt.3,36,38,53,97) e contro le censure che la Corte Costituzionale ha già espresso (sentenze 30/2004,316/2010,223/2012 e 116/2013) laddove ha ravvisato che sono stati intaccati i principi di adeguatezza delle pensioni,di rispetto dei diritti quesiti,di ragionevolezza e proporzionalità.

Come poco  tiene in considerazione le smentite al suo progetto da parte del ministro del lavoro Poletti e del neo commissario alla spending review Gutgeld.

Da rilevare, però, che fino a qualche mese addietro sia Poletti che Gutgeld sostenevano ipotesi ben diverse circa ulteriori tagli e penalizzazioni delle nostre pensioni.

Possiamo, quindi, noi pensionati “stare sereni”?

Non vorrei che la malaugurata “ipotesi Boeri” per ora fosse celata nella nebbia per non creare allarmi prima delle consultazioni delle regionali prossime.

Michele Poerio

Presidente nazionale Federspev

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