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Ubi, Bper, Bpm. Ecco i benefici di una bad bank popolare

La riforma delle Popolari, le 11 con asset sopra gli 8 miliardi, darà vita a istituti di credito in forma di Spa, con una presenza maggiore di investitori istituzionali, un accesso più completo ed efficace al mercato dei capitali e un ulteriore consolidamento. Sarà innanzitutto la compagine azionaria a dover cambiare pelle: secondo gli analisti di Boston Consulting Group che, insieme a Bernstein, hanno condotto uno studio sul tema, “gli investitori istituzionali, d’ora in poi, potranno aumentare la loro quota di partecipazione e spingere per utili e livelli di disclosure ancora maggiori”. Ma a dare la spinta decisiva in questa direzione sarebbe senza dubbio la creazione di una bad bank, dove convogliare tutti i crediti non esigibili delle banche.

INVESTITORI ATTRATTI DALLA BAD BANK
Lo dimostrano le risposte degli investitori istituzionali al sondaggio condotto dagli analisti di Bcg e Bernstein. Gli istituzionali sono interessati alle banche in generale che, in quanto settore ciclico, dovrebbero trarre benefici dalla prevista ripresa e, soprattutto, dal Qe e dalla svalutazione di euro e petrolio. “Le Popolari – si legge nel report – destano particolare interesse grazie alla loro semplicità (molte sono “pure play” in Italia e nel retail). La riforma e il consolidamento che ne potrebbe conseguire rinforzano ulteriormente tale interesse”. Ma solo la creazione di una bad bank potrebbe infine ridurre “l’incertezza sulla qualità degli asset, favorendo i rafforzamenti patrimoniali e gli M&A”.

GLI EFFETTI BENEFICI DI UNA BAD BANK
Quanto è probabile che una bad bank veda la luce in Italia? Gli analisti di Bcg e Bernstein fanno riferimento alle notizie di stampa al riguardo senza dare giudizi di merito. Ma poi analizzano i possibili effetti, tutti benefici, dell’operazione. Il primo è una ulteriore accelerazione del processo di consolidamento; per il resto il percorso potrebbe essere simile a quello seguito dalle banche in Spagna e Irlanda. “I non performing loan – si legge nel report – sarebbero rimossi dai bilanci delle banche cedenti, riducendo il costo del rischio e il capitale assorbito. La bad bank avrebbe maggiori capacità di recupero di questi npl, grazie all’impiego di risorse specializzate e al coordinamento delle attività sui clienti in precedenza condivisi tra più banche”. Le banche cedenti, libere dalla gestione degli Npl, potrebbero inoltre rifocalizzarsi sul core business: bilanci più solidi e maggiori profitti attesi attirerebbero nuovi investitori.

LE ESPERIENZE SPAGNOLA E IRLANDESE
Per quantificare l’entità di questi cambiamenti è possibile dare uno sguardo a quanto avvenuto in Spagna e Irlanda, che hanno adottato soluzioni simili alla potenziale bad bank italiana. In Irlanda, dal 2009, “Nama ha drenato circa 70 miliardi di euro di asset dalle banche irlandesi, riscattato 16,6 miliardi dei propri bond (55% dei 30,2 miliardi emessi) ed è oggi in utile (134 milioni di euro nel terzo trimestre del 2014)”. Le sei banche nazionali più grandi sono confluite in due gruppi (Boi e Aib) e in una banca più piccola (Ptsb). Il Return on asset del sistema è aumentato del 2,3% ed è vicino al breakeven, la capitalizzazione è passata dal 13% al 20% nel 2013”. Numeri simili per la Sareb spagnola che dal 2009 ha liberato 50 miliardi di asset dalle banche spagnole. “La Sareb – concludono gli analisti – è stata costituita troppo recentemente per giudicare le sue performance”; ma un primo risultato è senz’altro il consolidamento che ne è conseguito: “La quota di mercato dei cinque gruppi maggiori è del 13,3%, le filiali si sono ridotte del 25% nel rapporto con il numero di abitanti e hanno riguadagnato redditività (Return on asset a +1,9%)”.


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