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IL PUNTO. Lo scorso 14 aprile il Fondo Monetario Internazionaleha pubblicato il terzo capitolo del World Economic Outlook, il celebre documento con cui traccia ogni anno una rappresentazione sintetica dell’andamento globale dell’economia. Nell’edizione del 2015 l’FMI ha deciso di trattare il problema della crescita mondiale, uno temi più in voga nell’attuale dibattito economico e tra più invocati a livello politico dopo gli anni della crisi. In questa sede tuttavia, più che occuparci dell’uscita dalla recessione, ci interessa porre l’attenzione sull’approfondimento intitolato “Gli Effetti delle Riforme Strutturali sulla Produttività Totale dei Fattori”, in cui gli economisti del Fondo riportano i risultati di alcuni studi empirici relativi alle principali determinanti della produttività, altro leitmotiv del dibattito corrente. In particolare si evidenzia come un aumento della Produttività Totale dei Fattori (un indice che mette in relazione la quantità di output ed input impiegati in un processo produttivo) possa essere spiegato principalmente da una deregolamentazione del mercato dei beni e dei servizi, dall’impiego di lavoratori specializzati, dall’uso di capitale ad alto contenuto tecnologico (ITC) e da un alto livello di spesa per ricerca e sviluppo. Tra le cause capaci di spiegare un aumento della produttività non viene annoverato, come invece si è abituati a sentire dai proclami governativi a livello europeo e nazionale, un maggiore livello di flessibilità sul lato dell’offerta di lavoro, che anzi si dimostra essere incorrelato ad aumenti della produttività. Il Fondo Monetario ha dunque abiurato la teoria della “flessicurezza” e della necessità delle riforme strutturali sul fronte dell’impiego? Purtroppo no, ma la sua voce non può non avere un eco nelle faccende politiche che agitano le acque in casa nostra.
IL CERCHIO. Poco più di un mese fa, per l’esattezza lo scorso 7 marzo, il tanto discusso Jobs Act è entrato in vigore comportando una significativa riorganizzazione del diritto del lavoro. Il presupposto teorico su cui si basa il Decreto Poletti è quello che individua una stretta relazione positiva tra la flessibilità sul mercato del lavoro (assenza di barriere in entrata e in uscita dal mercato) e produttività dei lavoratori tramite il meccanismo della concorrenza: se le imprese sono libere di assumere e licenziare, ciò dovrebbe condurre automaticamente a selezionare i lavoratori più adatti per una certa mansione e scartare gli altri. La competizione per gli incarichi più remunerativi stimolerebbe l’impegno dei dipendenti (dunque la loro produttività) e ciò, in aggregato, dovrebbe anche migliorare il grado di occupazione della forza lavoro. Quello che in realtà sembra probabile che accada, e che in effetti già sta accadendo, è che le imprese assumano durante i periodi in cui si aspettano vendite più alte (Natale, Pasqua e qualche altra disparata ricorrenza) e licenzino i dipendenti nei periodi di magra. In termini meno qualitativi, questo è il genere di misure che vengono definite “procicliche”, cioè politiche che seguono gli andamenti del ciclo economico anziché invertire la tendenza negativa.
Gli strumenti legislativi con cui è stata predisposta tale riorganizzazione sono principalmente due. Il primo è quello relativo alla sostituzione della miriade delle figure contrattuali precedenti con un unico contratto a tempo indeterminato meno oneroso per le imprese, mentre il secondo riguarda la maggiore facilità di licenziamento. In particolare è stato abolito l’obbligo di reintroduzione obbligatoria sul posto di lavoro di un dipendente il cui licenziamento fosse stato dichiarato ingiusto con una sentenza giudiziaria (vi dice nulla il caso dei 145 lavoratori Fiom di Pomigliano?). Siamo sicuri che questo basti a ridare slancio ad un’economia tramortita da anni di stagnazione? La risposta dovrebbe essere autoevidente. Oltretutto il Jobs Act, come sottolineato dal lucidissimo Marcello De Cecco, trasforma la contrattazione salariale da una politica attiva su cui devono convergere tutti gli agenti economici ad una questione di domanda e offerta privati, come se le ore di lavoro fossero assimilabili alla vendita di qualsiasi altro bene privato tra due individui. Ma se ciò non migliora la produttività e dunque non riduce la disoccupazione, come ha scritto di recente il Fondo Monetario, la misura è probabilmente destinata non solo a non conseguire gli obiettivi per cui è stata pensata, ma anche ad aggravare ulteriormente la situazione.
Volendo dare retta all’FMI, che pure non è esattamente l’Oracolo di Delfi, l’Italia potrebbe forse fare qualcosa in più nella promozione dell’istruzione e della ricerca per migliorare la qualità media del lavoro. Purtroppo invece dobbiamo rassegnarci all’evidenza, fornita dall’OCSE, che l’Italia è da oltre 10 anni il Paese dell’area OCSE che spende meno nell’istruzione.