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Così il jihadismo ha ridisegnato i confini della cittadinanza

Il fenomeno del terrorismo internazionale ha definitivamente dismesso l’abito della vicenda tutta esterna alle democrazie occidentali, della minaccia straniera, da affrontare in primo luogo con gli strumenti del diritto dell’immigrazione. Esso si presenta oggi come una vicenda molto più complessa di quanto immaginato qualche anno fa e molto più vicino, nella sua genesi e nella sua capacità di diffusione, alle società civili delle democrazie d’occidente.

I cosiddetti foreign fighter, i cittadini di Paesi occidentali che raggiungono le formazioni jihadiste in Medioriente, rappresentano la manifestazione più evidente di questa trasformazione.
Le democrazie occidentali hanno dunque abbandonato le strategie di protezione della comunità politica incentrate sull’isolamento del non cittadino. Esse sembrano oggi accantonare la distinzione tra “cittadino” e “straniero”, in una corsa al ribasso delle tutele apprestate dagli ordinamenti ai diritti fondamentali.

Così, negli Stati Uniti – come in altri Paesi occidentali – neppure la cittadinanza sembra essere in grado di offrire una protezione giuridica nel frangente della lotta al terrorismo. Vi sono infatti almeno tre circostanze in cui il possesso di questo status giuridico non è sufficiente a garantire protezione: la pratica della confisca dei passaporti di cittadini americani, sospettati di affiliazione al terrorismo jihadista e temporaneamente residenti all’estero, ai quali è sostanzialmente impedito il rientro in patria (una misura praticamente analoga è stata ora inserita, in Italia, nel d.l. 7/2015, appena convertito); il collocamento di (cittadini) presunti terroristi in apposite no-flight list; l’impiego dei droni per il cosiddetto targeted killing di statunitensi, sospettati di partecipazione in attività di terrorismo internazionale, residenti al di fuori dal territorio americano e in zone nelle quali ne sia impraticabile la cattura. Le prime due circostanze hanno a che fare con la negazione di due diritti tipicamente connessi alla cittadinanza: l’ingresso nel territorio del proprio Stato e la libertà di circolazione (e di espatrio). L’ultima, invece, rappresenta una deroga al diritto alla vita, protetto a livello internazionale e costituzionale, come diritto dell’uomo.
Tanto la prassi della confisca dei passaporti quanto l’impiego di liste di persone alle quali è impedito l’imbarco sui voli di linea costituiscono misure emergenziali e temporanee, tipicamente adottate dal potere esecutivo. Sicuramente più problematica è la scelta di assoggettare anche i cittadini agli omicidi mirati, perpetrati tramite l’uso di droni.

La scelta politica di ricorrere a tali operazioni militari, perseguita prima da George W. Bush e poi da Barack Obama con un altissimo tasso di frequenza, è stata difesa dalla presidenza americana con un White Paper del Deparment of Justice (DoJ). Il DoJ ha esplicitato i tre criteri sulla base dei quali è possibile ordinare l’omicidio mirato nei confronti di un cittadino statunitense: l’esistenza di una dichiarazione, rilasciata da un alto ufficiale del governo americano, concernente la pericolosità dell’individuo assunto ad obiettivo dell’attacco; l’impraticabilità della cattura; la necessità che l’operazione rispetti i principi del diritto internazionale dei conflitti armati.

In ultima analisi, il possesso dello status di cittadino determina soltanto la necessità di sottoporre il targeted killing ad uno scrutinio politico particolarmente stretto, ma non è di per sé in grado di escludere l’attivazione dell’operazione militare. E, infatti, le operazioni di omicidio mirato ai danni di cittadini americani continuano tuttora e conservano il ruolo di elemento cruciale della strategia antiterroristica statunitense.
Insomma, viviamo ormai in un’epoca in cui cittadino e straniero non rappresentano più le categorie fondamentali che definiscono i confini della comunità politica.

Graziella Romeo è assistant professor del Dipartimento di studi giuridici

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