I droni non sono quei micidiali mietitori di vite innocenti come un’etica nefasta, legata al loro uso a volte scellerato, sta via via veicolando verso il sentire pubblico, semmai è vero il contrario, ossia che tra tutti i sistemi in inventario nei moderni eserciti è l’arma che meglio riesce a discriminare il bersaglio e che, se ben usata, può ridurre a dimensioni del tutto modeste i danni collaterali.
Questo fondamentalmente per due motivi: il primo è che rispetto a tutte le altre armi, nessuna esclusa, esso consente di tenere nel mirino un bersaglio per un tempo praticamente illimitato, così da poter far fuoco solo quando sicuri della legittimità del bersaglio e dell’alta improbabilità di causare danni collaterali; con un moderno caccia invece gli istanti prima dell’attacco sono un concentrato di attenzione in cui non bisogna fallire, né vi è generalmente prova di appello: tutto va valutato, deciso ed attuato in pochi secondi, comprensibile quindi l’errore.
Il secondo motivo per una riduzione drastica della letalità indesiderata, è che il livello di decisione sull’uso delle armi può essere sottratto al normale operatore del sistema e portato al livello gerarchico più adeguato in relazione alla delicatezza della missione od alla prudenza rispetto a danni non voluti; tutti ricorderanno la foto che ha fatto il giro del mondo in occasione dell’uccisione di Osama bin Laden quattro anni orsono ad Abbottabad: l’intero vertice dell’amministrazione statunitense, Barack Obama compreso, con lo sguardo fisso su un punto, verosimilmente sull’immagine che il drone che avrebbe ucciso il terrorista, trasmetteva in diretta nella war room statunitense; se solo il presidente Usa avesse avuto qualche dubbio dell’ultimo momento poteva lui stesso decidere per un esito diverso della missione.
La geometria variabile del livello decisionale sull’uso delle armi di bordo dei droni vide la sua nascita con il conflitto dei Balcani del 1999, quando, in seguito alle pressioni sempre più frequenti delle capitali in guerra, Washington in testa, sempre meno disposte ad accettare danni collaterali, venne stabilito che l’ordine di fuoco ai droni potesse venire solo da un ufficiale di grado non inferiore a generale ad una stella in turno al Caoc (Centro Operativo) di Vicenza, il quale aveva a disposizione per le sue valutazioni, oltre a collaboratori ed analisti, anche le immagini inviate in diretta dal drone, proiettate su uno schermo a tutta parete.
Permanenza prolungata sull’obiettivo quindi fino a valutazione certa, ed ordine di intervento collocato al livello più opportuno sono le garanzie che solo il drone può fornire rispetto a qualsiasi altro sistema, terrestre, navale od aereo: chi dice che non si riuscirebbe ad eliminare i natanti della morte sulle coste libiche non sa cosa dice; oltre dieci anni di esperienza in teatri complessi come Iraq, Afghanistan e Libia consentono ad un qualunque operatore italiano di distinguere le attività preparatorie di un viaggio di disperati rispetto ad un qualunque altro impiego, le migrazioni potrebbero essere individuate, in cooperazione con sistemi satellitari e di altro tipo, fin dagli stadi più precoci, in profondità nel deserto e monitorati in tutto il loro sviluppo riservandosi gli interventi più appropriati con un mezzo che consente con le sue performance intrinseche di adottare decisioni nel pieno rispetto della vita umana.
Su questi temi andrebbe aperta una riflessione più attenta, è passato del tempo ma non si sono fatti progressi significativi da quando, secondo quanto riportato dal Corriere della Sera nel 2006, il segretario del Partito della rifondazione comunista, Franco Giordano, si oppose all’invio dei Predator italiani in Afghanistan, dicendo che con quel nome non potevano essere considerati mezzi di pace.
Tale decisione sottrasse al contingente italiano, alla Nato ed alle popolazioni afghane un importante strumento di prevenzione a tutela della propria sicurezza. Cerchiamo di non ripetere gli stessi errori nell’imminenza di decisioni che ancora una volta ci riguardano da vicino.