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Il lungo letargo del commercio globale

Mi tornano in mente antiche teorie economiche e vecchie allocuzioni di dimenticati banchieri centrali mentre scorro l’articolo che la Bce, nel suo ultimo bollettino economico, dedica all’andamento del commercio internazionale, che ormai da più di un lustro l’inverno della crisi ha confinato in un letargo dagli esiti incerti, che fattori insieme strutturali e congiunturali minacciano di far durare ancora a lungo, con tutti i rischi che la consunzione può provocare a un organismo addormentato.

Perché se è vero, come dicevano gli antichi, e come sostengono molti moderni, che l’unica fonte di ricchezza per l’economia deriva dal commercio, allora dovremmo iniziare a chiederci quali siano le prospettive reali, al di là delle facilitazioni monetaria delle banche centrali, che prima o poi ci presenteranno il conto, o dei deficit statali per alimentare la domanda, che il conto ce l’ha già presentato, per l’economia se la macchina inceppata degli scambi internazionali non dovesse tornare non dico a correre, ma almeno a trottare, visti che finora sembra camminare a passo di lumaca.

I dati recenti non sembrano incoraggianti. “La crescita annua delle importazioni mondiali – scrive la Bce – si colloca da tre anni al di sotto della sua media di lungo termine nel periodo antecedente la crisi. Questa fase di debolezza, la seconda per durata in oltre quarant’anni, è altresì caratterizzata da tassi di espansione del commercio internazionale bassi non solo in termini assoluti ma anche in rapporto all’attività economica. Se
nei 25 anni antecedenti il 2007 l’interscambio è aumentato a ritmi quasi doppi rispetto al PIL mondiale, dalla seconda metà del 2011 il suo tasso di incremento si è mantenuto mediamente inferiore a quello del prodotto”. Senza che quest’ultimo sia stato esaltante, vale la pena ricordarlo.

Le ragioni, spiega la Bce, sono “cicliche e strutturali”. Queste ultime, in particolare, mi preoccupano di più, visto che sulle cicliche faremmo bene a metterci una pietra sopra. Tanto più quando leggo che “l’impatto dei fattori strutturali potrebbe perdurare nel più lungo periodo” e che di conseguenza “il rapporto fra la crescita dell’interscambio mondiale e quella del PIL globale dovrebbe quindi tornare a salire, ma è probabile che rimanga al di sotto della sua media di lungo termine nel periodo antecedente la crisi”.

Ne deduco che fino a prima del 2007 abbiamo vissuto veramente l’età dell’oro del commercio internazionale e mi chiedo se abbiamo grasso sufficiente addosso per affrontare questo lungo inverno.

La prima circostanza che vale la pena rilevare la osservo guardando il grafico delle importazioni mondiali fra il 1970 e il 2014 che la Bce gentilmente pubblica, dove noto che un periodo (quasi) brutto come quello che abbiamo vissuto nel 2009 lo abbiamo passato nel 1975 e ci vollero parecchi anni prima che il commercio tornasse sopra la media pre-crisi.

Un andamento simile a quello che si è visto dopo la Grande Recessione, quando le importazioni globali sono crollate, portandosi appresso i Pil di mezzo mondo, per poi risalire con decisione nel 2010.

Ma è stato un rimbalzo illusorio. Nel terzo trimestre 2011 i tassi di incremento dell’import hanno iniziato a declinare, posizionandosi sotto la media di lungo periodo e lì sono rimasti fino ad oggi, malgrado le espansioni monetarie e la retorica delle competitività che non ha risparmiato nessuno di noi. Sicché la domanda rimane aperta: cosa ce ne facciamo di una maggiore competitività, con tutto quello che significa, se poi la domanda estera ristagna?

Leggo inoltre che “la crescita del commercio mondiale è debole non solo in termini assoluti, ma anche
nel confronto con quella dell’attività economica”.

Dagli anni ’80, infatti, le importazioni globali sono aumentate a ritmi quasi doppi rispetto al Pil. E invece, sempre a partire dal terzo trimestre 2011, “il rapporto tra la crescita delle importazioni e quella del PIL su scala internazionale (noto anche come elasticità del commercio al reddito) è sceso attorno a uno”. Con l’aggravante che “la debolezza dell’interscambio va ricondotta principalmente alla minore crescita della componente
dei beni, poiché quella dei servizi si è mantenuta sostanzialmente stabile”.

L’analisi diventa interessante se il ristagno delle importazioni globali si scompone nelle sue componenti regionali, perché se è vero che “la recente decelerazione del commercio mondiale è generalizzata”, lo è atrettanto che “gli scambi sono cresciuti meno nelle economie avanzate che in quelle emergenti fra il 2011 e il 2013,
mentre nel periodo successivo hanno evidenziato una perdita di slancio nei mercati emergenti
e una parziale ripresa nei paesi avanzati”.

Un altro grafico fotografa chiaramente questa situazione. Nel periodo fra il terzo trimestre 2011 e il terzo trimestre 2013 “nelle economie avanzate la debolezza del commercio è stata in larga parte determinata dalla situazione nell’area dell’euro, dove la crescita annua delle importazioni è diminuita sostanzialmente”, mentre nel resto delle altre economie avanzate nel primo periodo l’import ha retto “grazie alla solida espansione economica negli Stati Uniti e all’aumento delle importazioni in Giappone a seguito della calamità naturale agli inizi del 2011″.

I paesi emergenti raccontano un’altra storia. Qui le importazioni sono drasticamente diminuite dal 2011-12, quando ancora registravano una variazione percentuale positiva superiore al 6%, a meno del 3%, persino meno dei paesi avanzati e assai al di sotto della media di lungo periodo (8%) fra il 2013 e il 2014. “Nei mercati emergenti – spiega la Bce – la decelerazione del commercio è stata dominata dagli andamenti in Cina. In Cina la crescita annua media delle importazioni si è più che dimezzata”.

Le Grandi Speranze dell’export occidentale, insomma, sono diventate una grande delusione. E non credo sia un caso che i contributo alla crescita delle importazioni mondiale declini al declinare delle importazioni da questi paesi, che negli anni buoni ha sostenuto gran parte degli scambi internazionali.

Il fatto che questi stessi paesi siano adesso esposti al rischio finanziario determinato dal loro alto indebitamento in dollari e dal forte apprezzamento della valuta americana e dall’imminente avvio dell’exit strategy Usa non è certo un buon viatico per la loro capacità di contribuire alla ripresa del commercio internazionale.

Il letargo, insomma, potrebbe durare ancora a lungo.

Forse perché l’inverno più rigido deve ancora arrivare.


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