“Ce n’est qu’un début, continuons le combat!”: Neppure è stato pubblicato il decreto legge con cui il governo Renzi ha disciplinato, ora per allora, il blocco dell’adeguamento delle pensioni superiori a tre volte l’importo minimo che dichiarato illegittimo dalla Corte costituzionale (sent. 70/2015), che già si preannunciano nuovi ricorsi alla Consulta.
Si ingrossa il drappello di irriducibili che si sono opposti al rigore finanziario imposto all’Italia dalla Unione europea e dai mercati finanziari a partire dalla metà del 2011. La mannaia della Corte era già stata calata sulla Robin Tax e più di recente sulla tassa sulle e-cigarette, viziate dall’insussistenza della capacità contributiva e dall’uso abnorme dello strumento tributario. In vista c’è la sentenza sulla cristallizzazione delle retribuzioni del pubblico impiego, decisione assai più penalizzante del blocco della contrattazione.
Non è solo la nostra Corte costituzionale a mettere in riga i governi: è stata la Corte di giustizia dell’Ue a condannare l’Italia per non aver assunto stabilmente un insegnante precario che aveva prestato servizio ininterrottamente per più di 36 mesi. Se ora si discute finalmente dell’immissione in ruolo di oltre centomila precari è solo per una decisione giurisdizionale. Attivata da uno solo, vale per tutti. Si rimedierà, ma intanto nessuno ha fatto i conti di quanto costoro hanno già perduto in termini di carriera retributiva e di contributi previdenziali.
Si sta aprendo un vaso di Pandora: la Corte costituzionale ha dimostrato che i governi non danno piena contezza al Parlamento delle decisioni che assumono, e meno ancora delle conseguenze cui vanno incontro. Tacciono al Parlamento, all’opinione pubblica ed alla stessa Corte costituzionale. Il Salva Italia fu presentato come l’ultima spiaggia per evitare il baratro finanziario, costringendo i parlamentari ad approvarlo. Furono, e sono ancora, tempi di inaudita violenza politica e mediatica nei confronti delle istituzioni, prima nei confronti del Parlamento ed ora della stessa Corte: chi doveva fare i conti non li ha fatti, e se li ha fatti li ha tenuti nascosti. Non si spiegherebbe altrimenti il caotico affastellarsi di cifre e stime sugli oneri a regime derivanti dalla eliminazione del blocco delle pensioni, le incertezze sull’entità degli arretrati, le accuse rivolte alla Corte di non essersi fatta carico delle conseguenze potenzialmente devastanti sui conti pubblici e le critiche per la scarsa efficacia della difesa dell’Avvocatura dello Stato nel corso del giudizio davanti alla Corte. Sono considerazioni, queste ultime, assolutamente ingenerose: i dati dovevano essere forniti dal governo citato in giudizio, che si è ben guardato dal farlo, così come già nulla risultava dagli Atti parlamentari relativa alla discussione del blocco delle pensioni.
Se il principio del pareggio di bilancio rinvigorito dalla novella dell’articolo 81 della Costituzione veniva messo in pericolo, visto che nel complesso il costo del ripristino della indicizzazione delle pensioni potrebbe arrivare a 20 miliardi di euro, è ben vero che “non erano dati di cui disponevamo”, come ha candidamente ammesso in un’intervista lo stesso presidente della Corte Criscuolo, anche se poi ha aggiunto che “noi non facciamo valutazioni di carattere economico”.
La Corte costituzionale ha dichiarato illegittimo il blocco delle pensioni perché violava il criterio di ragionevolezza: la norma era stato decisa senza alcuna giustificazione e senza che nessuno si peritasse di chiarire di quanti soldi si trattasse né a che cosa servisse il risparmio. E difatti, nella relazione tecnica al decreto non veniva fornito alcun impatto migliorativo sul deficit dello Stato. Neppure risultava l’impatto prospettico, in termini di minor deficit del complesso delle Pubbliche amministrazioni. In conclusione, il blocco comportava un risparmio di spesa della spesa previdenziale di cui non si chiariva né la ragione, né l’ammontare, nè la finalità.
Ricostruendo l’iter parlamentare, la Corte ha ricordato che inizialmente il decreto prevedeva il blocco dei trattamenti pensionistici di importo superiore a due volte il trattamento minimo, pari quindi a 946 euro, e che in Commissione il Ministro competente chiarì che la misura in questione non confluiva nella riforma pensionistica, ma che era da intendersi un «provvedimento da emergenza finanziaria». Non solo nel Salva Italia non c’era alcuna evidenza di questa correlazione, ma il rappresentante del governo aveva anche esplicitamente escluso ogni correlazione con la contestuale riforma delle pensioni. Il blocco fu portato a tre volte il minimo, ma poteva tranquillamente salire ad otto volte: fu una discussione senza alcun fondamento metodologico e obiettivo di risparmio da conseguire. Ma così è andata avanti per mesi, con l’Italia presa a badilate, fingendo di avere gli occhi chiusi: questo emerge dalla sentenza.
Secondo la Corte, invece, il blocco dell’adeguamento delle pensioni al costo della vita è ben possibile, e difatti è stato più volte disposto, ma deve essere chiaramente motivato. E, soprattutto, devono essere palesi i nessi tra i sacrifici disposti e la situazione di squilibrio previdenziale.
Risulta quindi assai strano il fatto che ora di tutto si discuta, tranne che del bilancio dell’Inps e delle relazioni tra finanza pubblica e gestioni previdenziali, senza considerare che le pensioni sono pagate, salvo eccezioni, con i proventi dei contributi dei lavoratori iscritti. Occorre chiarezza sui contributi previdenziali che ciascuno ha versato, come ha chiesto su queste colonne Paolo Savona, per far emergere finalmente l’entità dei benefici pubblici di cui ciascuno eventualmente usufruisce. Lo stesso presidente dell’Inps Boeri si sta impegnando a tal fine.
Ma serve ancor più chiarezza nelle decisioni pubbliche, vista la opacità con cui sono state assunte le severe misure fiscali che hanno inciso ed incidono ancora pesantemente sulla vita dei cittadini italiani, con conseguenze devastanti: dal 2011 alla fine del 2014, il Pil reale è caduto di 4,3 punti, la disoccupazione è passata dall’8,4% al 12,8%, il rapporto debito pubblico/pil dal 116,4 al 132%. Non viene detta tutta la verità, ora come allora: veniva perseguita la recessione come strumento di recuero della competitività esterna, aumentando le tasse e tagliando le pensioni, per far crollare la domanda interna. La disoccupazione di massa rappresenta un obiettivo di politica economica, indispensabile per far abbassare i salari ed i prezzi: non è una casualità, né un mero incidente della Storia. Mentre servivano e servono più investimenti in innovazione, è stata adottata e si continua ad adottare la strategia della deflazione competitiva, fallita dappertutto, visto che la Bce ha dovuto dare corso quest’anno al Quantitative easing per evitare il tracollo dei prezzi. Dopo le ire del mercato, che nel 2011 bastonava l’Italia con lo spread, per un insostenibile debito pubblico appena al 116,4%, ora che siamo al 132% paghiamo interessi a tassi mai così esigui. Il debito è salito, abbiamo lo stesso rating, ma paghiamo un premio al rischio cinquecento punti base inferiore per una crescita che è ancora tutta da venire.
Sono finiti gli anni in cui in Italia prevaleva la solidarietà tra le categorie sociali ed i territori, in cui si poteva dare un po’ a tutti. Ora c’è il rischio opposto, quello di togliere anche il giusto, in omaggio a una malintesa solidarietà intergenerazionale che invece indulge all’astio. I giovani, sempre più disoccupati per scelta di politica economica, sono fomentati, indotti ad inveire contro i padri o i nonni, perchè con le loro pensioni ruberebbero loro il lavoro ed il futuro. C’è stato un furto di verità, che la Corte ha smascherato, ma che si cerca nuovamente di occultare. Se fosse stato indicato il risparmio per la spesa dell’INPS, sarebbe stata meglio stimata anche la riduzione della domanda interna che ne è derivata e che nessuno aveva previsto. Natualmente, non c’è mai un colpevole di attentato alla Costituzione.
La Corte ha mandato un messaggio preciso: nelle decisioni legislative servono chiarezza e razionalità, motivazioni ineccepibili e presupposti concreti. Ogni giorno si allunga la lista dei balzelli: sulle pensioni, siamo partiti con il tetto alla retribuzione pensionabile, si è aggiunto il blocco della rivalutazione e poi si è imposto il contributo di solidarietà; sui redditi, oltre alle aliquote statali ci sono le addizionali regionali e comunali; sulla casa non si sa più quali e quante siano le tasse. L’equità, soprattutto quando ci sono dei sacrifici da chiedere, deve essere misurabile: il rigore non può essere una scorciatoia per confiscare i diritti dei cittadini, i loro redditi, i loro beni, tutto quello per cui hanno lavorato. Ecco perché la confusione mediatica ed il decisionismo politico devono farla da padroni: perché, quando finalmente si capisce che cosa si è deciso, è troppo tardi per rimediare.
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