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Obama barcolla troppo fra Arabia Saudita e Iran sul Medio Oriente

Povero Obama, se la prendono tutti con lui. E’ vero, la caduta di Ramadi in Irak e di Palmira in Siria sono altri due schiaffoni in faccia. E la politica estera resterà uno dei grandi punti deboli del doppio mandato obamiano, tuttavia gli attacchi di queste ultime settimane sono paradossali.

Prendiamo quel che sostiene Charles Krauthammer, columnist acuto quanto conservatore di vecchio stampo: “In Siria c’era gente pronta a combattere contro i terroristi dell’Isis e il carnefice Assad, ma noi americani abbiamo deciso di non aiutarli dicendo che erano ingegneri, medici, banchieri: poco credibili con le armi in mano. In Irak, invece, abbiamo cercato di costruire un esercito locale con capi settari e soldati corrotti che non avevano voglia di combattere”. “Parole forti, ma nelle quali c’è del vero”, commenta Massimo Gaggi sul Corriere della Sera. In realtà, anche Krauthammer si rifugia dietro la cortina del politicamente corretto.

Ci sono gruppi siriani in grado di combattere contemporaneamente contro Assad e l’Isis se opportunamente armati? E dove sono? In quattro lunghi e sanguinosi anni non si sono materializzati. Non è che l’opposizione moderata non ha armi adeguate, è che non ha una testa politica in grado di guidare la mano militare anche ammesso che si materializzi per incanto. E se non c’è un’intelligenza che le comandi, nessun’arma può essere intelligente (e nemmeno efficace).

Quanto all’Irak, qui le menti sono persino troppe, non tutte intelligenti, ma tutte in conflitto tra loro. Perché Krauthammer non chiama per nome i soldati dell’esercito “ufficiale” anziché limitarsi a definirli “settari”? Ci sono i combattenti sciiti, gli unici davvero preparati che rispondono all’Iran e ci sono i sunniti recuperati all’ultimo momento che si sentono minacciati più dagli sciiti che dall’Isis (e non hanno tutti i torti, memori dei massacri subiti). Ciò è il frutto della scelta americana, di Wolfowitz, Rumsfeld e Bush figlio, i quali hanno emarginato i sunniti perché compromessi con il regime di Saddam.

L’Irak è un casino non perché se ne sono andati gli americani, ma perché gli iracheni se lo sono spartito da tempo: gli sciiti filo-iraniani hanno la fetta maggiore, i curdi la loro enclave settentrionale e i gruppi sunniti sono tornati nelle tribù a contendersi il resto e qualche pozzo di petrolio. Esattamente come sta accadendo in Libia, anche se nel Paese africano la divisione è meno religiosa e più territoriale.

A tutto questo, bisogna aggiungere uno storico alleato come l’Arabia Saudita che ha fatto il doppio gioco fin dai tempi di Osama bin Laden anche se le amministrazioni americane, prima Clinton poi Bush, hanno fatto finta di non vedere.

La guerra contro l’Isis non la si vince armando fantomatici gruppi davvero poco combattenti, ma con una invasione di terra come quella dell’Irak. E’ vero che non esportò la democrazia, ma ha spappolato per la seconda volta l’esercito di Saddam (la prima fu nel 1991). Ebbene nessuno negli Usa, a cominciare dai soloni conservatori, vecchi e nuovi, ha intenzione di far mettere ancora una volta gli scarponi dei marine nelle sabbie mediorientali. Il Wall Street Journal, che attacca Obama (e con solidi argomenti) finisce per illudersi che basterà “una forza di combattimento americana di circa 10 mila soldati con una vigorosa campagna aerea a sostegno dei combattenti iracheni e curdi”; cioè di quelli che, come aveva scritto prima, non sanno  e non vogliono combattere o dei curdi che tutti vogliono tenere alla larga? Quanto ai diecimila, è una pia illusione. Anche perché non si vede come il Congresso possa autorizzare un intervento di terra. Obama potrebbe sfidare l’opinione pubblica, il suo partito e i repubblicani, visto che ormai il proprio termine sta scadendo. Ma intanto non è il tipo, e poi non ha la minima garanzia di vincere una guerra su più fronti e su più teatri.

Non è su questo, dunque, che va criticato il presidente. Ma semmai sulla sua continua oscillazione tra i due combattenti che oggi si contendono l’egemonia del mondo islamico: l’Arabia Saudita e l’Iran. Obama prima ha cercato di tirarsi fuori dal pantano, poi ha tentato di mettere l’uno contro l’altro per indebolire entrambi. L’apertura a Teheran sul nucleare ha scatenato le ire della casa regnante saudita, attraversata da lotte dinastiche e da linee politiche diverse, tanto che Riad vuole dotarsi di armi atomiche acquistandole sottobanco e scatena i suoi bounty killer con la palandrana nera (non a caso hanno rialzato la testa dopo alcuni mesi di arretramento o di stallo).

E’ probabile che Obama resti cornuto e mazziato, perché alla fine tra gli ayatollah vincerà la linea intransigente della guida suprema. La sua svolta verrà frustrata con grande gusto dei figli e dei nipoti di Ibn Saud. Se sarà così, allora davvero la politica mediorientale sarà ricordata come catastrofica.

Il fatto è che Obama interpreta la parte più molle di una America incerta, indecisa, che sostanzialmente sta rimettendo in discussione il proprio ruolo di “sceriffo mondiale”, come ha scritto Ian Bremmer nel suo ultimo libro. La grande crisi economica, da questo punto di vista, ha avuto l’effetto di un contro-choc rispetto all’11 settembre. La sicurezza del portafogli si è rivelata più urgente rispetto alla stessa sicurezza militare (comunque garantita da una guerra al terrore condotta altrove e in modo meno diretto). In economia Obama ha vinto, ma non ha saputo dare al suo Paese una nuova missione. Non ha scelto l’isolazionismo, come molti vorrebbero, e nemmeno l’interventismo. La teoria del soft power si è rivelata un insieme di luoghi comuni, davvero troppo soft. Alla fine, il ritorno alla crescita e alla piena occupazione non gli servirà per restare nella storia come colui che ha cambiato il corso implacabile degli eventi.

Stefano Cingolani


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