Ricordate il refrain che ci ha spaccato i timpani per almeno due anni? Fate come la Spagna. La Spagna sì che ha affrontato la crisi. La Spagna sì che è una democrazia: si vota, si vince, si perde, si decide. E l’austerità? In Spagna paga: ecco qua il ritorno alla crescita. E i disoccupati? E salari e stipendi massacrati? Quisquilie. E un debito pubblico triplicato? Pinzillacchere. E il deficit che ancor oggi è il doppio di quel che prevede Maastricht? Inezie. E poi è tutto certificato, tutto consentito, tutto bollinato dall’Unione europea.
Chissà se oggi, dopo i risultati clamorosi (anche se non inattesi) alle elezioni locali, qualcuno dei soloni filo-spagnoli avrà la onestà di ammettere che forse tutti quei peana erano quanto meno eccessivi. Ciò vale per gli austeri di centro-sinistra, ma anche per il centro-destra che ha portato ad esempio Madrid perché è andata alle elezioni (e ha vinto la destra) invece di avventurarsi in governi tecnocratici. In realtà, nell’un caso e nell’altro, eletti o no, i governi dei Paesi deboli sono stati guidati dall’esterno, dai mercati, da Bruxelles e da Francoforte, hanno compiuto sforzi e sacrifici (spesso giusti o inevitabili), ma non hanno risolto i loro problemi economici e politici. Anche questo per onestà andrebbe ammesso.
L’economia innanzitutto. Le Figaro ha pubblicato un articolo perfidamente oggettivo mettendo insieme un po’ di cifre (tabella in basso). La Spagna ha attraversato tre crisi: quella immobiliare nel 2008 che ha innescato la crisi finanziaria la quale a sua volta ha provocato la crisi bancaria e il collasso del 2012. A quel punto, la Ue ha autorizzato, anzi concordato, un salvataggio delle banche che ha contribuito in modo determinante all’esplodere del debito pubblico già gonfiato dalla necessità di pagare sussidi e assistenza ai disoccupati. In Spagna il mercato del lavoro è stato liberalizzato e i salari si sono abbassati molto più che in altri Paesi (esclusa la Grecia). Come effetto immediato, ciò ha provocato una disoccupazione salita al 27% nel 2013. La svalutazione salariale ha dato slancio alle esportazioni cresciute dai 12 miliardi di euro del 2009 ai 20 miliardi del primo trimestre di quest’anno, anche se la bilancia con l’estero rimane negativa: meno 1,84% del pil. Certo, il saldo è migliorato rispetto al 2009, tuttavia conta molto anche la contrazione dell’import negli anni di recessione della domanda interna.
E i parametri di bilancio? Il disavanzo pubblico resta ancora doppio rispetto al mitico tetto del 3% al quale è tenacemente inchiodata l’Italia. Ciò consente di attutire gli effetti sociali della crisi, anche se non basta a sedare lo scontento che, dopo alcuni anni di protesta vociante, ma politicamente sterile, ha trovato uno sbocco politico.
Ecco l’altro corno del dilemma. Perché solo gli sciocchi ragionano di politica economica senza ragionare di politica tout court. In Grecia abbiamo visto come è andata: ha vinto un partito che non è solo radicalmente di sinistra, ma si è rivelato un circolo di dilettanti allo sbaraglio che sta portando il Paese (e forse l’intera Europa) dentro un nuovo gorgo finanziario, economico e, scusate se insistiamo, politico. In Spagna, Podemos e Ciudadanos non sembrano molto diversi. Lasciamo il beneficio d’inventario al bel Pablo Iglesias e ad Ada Colau che ha sbancato Barcellona. Tuttavia, dubbio e scetticismo s’impongono.
Quale lezione si può trarre? Facciamo parlare i banchieri centrali e andiamo in Portogallo al Forum che s’è tenuto la scorsa settimana a Sintra. I giornali italiani hanno dato ampio spazio al discorso di Mario Draghi che, infatti, ha fatto da spartiacque. Il presidente della Bce ha chiesto che i governi si diano una mossa, perché la banca centrale sta esaurendo le munizioni. In questo ha interpretato lo stato d’animo di tutti i suoi colleghi. Il governatore della Banca del Giappone Horohiko Kuroda ha tirato gli orecchi al premier Shintaro Abe perché la cosiddetta Abenomics si è rivelata più fumo che realtà e tocca alla banca centrale stampare ancor più moneta per far galleggiare l’arcipelago del Sol Levante.
Ma pochi hanno scritto che lo stesso Draghi è finito sotto tiro. Lo ha attaccato apertamente Larry Summers il quale insieme a Olivier Blanchard, capo economista uscente del Fondo monetario, e al suo braccio destro Eugenio Cerutti, ha presentato un paper che rivela la crescente inefficacia degli stimoli delle banche centrali: “La fede nella loro abilità di raggiungere il loro obiettivo è aumentata, mentre l’abilità di centrare il bersaglio è diminuita”. Ciò vale per i prezzi perché si è lasciato che scivolassero verso la deflazione e ancor più per lo sviluppo, soprattutto in Europa: sei milioni di posti di lavoro sono stati perduti nell’area euro dal 2008 e difficilmente saranno recuperati come ha ammesso Draghi.
La spiegazione della Bce è che ciò accade perché il mercato del lavoro resta troppo rigido e non sono state fatte le riforme. Per Summers non è sufficiente: bisogna aumentare la domanda interna e ciò nell’area euro spetta alla Germania. E’ facile prevedere che a fine settimana, al vertice del G7 a Dresda, il governo tedesco sarà messo di nuovo all’indice, anche se il ministro delle Finanze Wolfgang Schaüble ha già messo le mani avanti.
Ma la sferzata più bruciante è venuta da Stanley Fischer, numero due della Federal Reserve, decano dei banchieri centrali e professore di Draghi al MIT negli anni ‘70. Fischer si è rivolto al suo ex allievo con ironia: “Caro Mario, va bene parlare di riforme strutturali di tanto in tanto, ma non puoi farne l’argomento principale ogni volta che intervieni in pubblico”. E’ vero, il mercato del lavoro americano è unificato e ben più flessibile di quello europeo, però per il vecchio studioso, autore del più diffuso manuale di macroeconomia, a tirare la carretta è sempre la domanda aggregata (consumi più investimenti). La Fed si è data anche un obiettivo di crescita e sta per raggiungerlo, mentre l’inflazione è ancora troppo bassa, anche se negli Usa non c’è deflazione. L’unico obiettivo della Bce, invece, è l’inflazione e finora lo ha mancato. La critica di Fischer era paterna e costruttiva, ma ha parlato con chiarezza.
Il marasma politico in cui cade adesso anche la Spagna non fa che dargli ragione.