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Tutte le bubbole degli ambientalisti pasdaran

Pochi forse sanno che la Strategia energetica dell’Italia prevede un rilancio della produzione nazionale di idrocarburi. Nel senso che è vero che occorre andare avanti con le energie rinnovabili, ma nello stesso tempo l’Italia dovrebbe produrre un po’ più di petrolio e gas.

A dirlo in maniera esplicita d’altra parte è stato qualche mese fa l’ex Ad di Eni, Paolo Scaroni, parlando davanti alla Commissione Attività Produttive della Camera. Ecco le sue parole: “L’Italia è un paese ricco di risorse petrolifere e di gas con una produzione nazionale che copre circa il 10 per cento del fabbisogno di idrocarburi. Se applicassimo le stesse norme e con la stessa celerità con la quale si applicano in Norvegia o in Inghilterra si potrebbe raddoppiare l’estrazione di idrocarburi passando a coprire il 20 per cento del nostro fabbisogno e generando circa 1,5 miliardi di euro di royalty in più per le casse del nostro Paese, creando inoltre alcune decine di migliaia di posti di lavoro”.

Praticamente il contrario di quel che ha detto nei giorni scorsi il leader di Sel Vendola insieme a circa 60 mila persone – secondo gli organizzatori – che hanno partecipato ad un corteo “contro le trivelle per salvare l’Adriatico”. Manifestazione contro la piattaforma “Ombrina”, promossa dalla società per azioni Medoilgas Italia. Per l’esattezza Vendola ha detto che quella era una “straordinaria mobilitazione” ovvero “l’occasione giusta per fermare la ricerca di un greggio che noi non desideriamo e che consideriamo una minaccia”. Una manifestazione non solo della “sinistra del nimby”, però. Per esempio al corteo No Triv aderiva “convintamente” anche Forza Italia.

E’ vero – lo dice anche il documento che illustra la SEN – che il petrolio sta perdendo “importanza relativa”, ed è vero anche che le energie rinnovabili sono quelle dalle quali si attende la maggiore crescita. Ma – dice con qualche esitazione semantica il documento – il petrolio ci serve, ne abbiamo, e dunque è doveroso fare leva “anche” su queste risorse, pur facendo attenzione all’impatto ambientale.

Abbiamo allora chiesto a Simona Vicari (Ncd) che è sottosegretario al ministero dello Sviluppo Economico da oltre due anni, prima con Zanonato, governo Letta, poi con Guidi, di parlarci del surreale dibattito aperto da tempo nel nostro Paese: da una parte comitati e partiti – praticamente tutti – che nelle loro propaggini locali o nazionali denunciano, anche con atti parlamentari. che con alcuni provvedimenti legislativi (come il cosiddetto Sblocca Italia) il nostro Paese sia ormai alla mercé dello sfruttamento selvaggio del territorio. Dall’altra le aziende che lamentano al contrario il fatto che attività come la possibilità di fare progetti offshore sia praticamente vietata, al contrario di quel che succede in Norvegia o in Inghilterra.

“Questo governo ha già messo in campo ogni sforzo teso a rilanciare il settore della produzione nazionale di idrocarburi in un’ottica di piena sostenibilità ambientale e sociale, implementando in tal modo i dettami della Strategia Energetica Nazionale”, ha detto Vicari.

Il sottosegretario cita alcuni atti – dalla semplificazione delle procedure alla revisione della disciplina su garanzie e fidejussioni degli operatori,dall’introduzione del titolo concessorio unico ai benefici introdotti appunto nel cosiddetto Sblocca Italia per – dice – “accrescere l’accettabilità sociale di questa tipologia di interventi, da realizzarsi con le migliori tecnologie oggi a disposizione”.

Significativamente la Vicari mette infine l’accento su un punto. Dice che “la materia mineraria ed energetica è oggetto di focus specifico nel Disegno di legge costituzionale di modifica del titolo V della nostra Costituzione, auspicato da più parti per superare la paralisi autorizzativa e realizzativa delle opere strategiche nel nostro Paese”. Ovvero: la competenza di questi temi torni presto allo Stato, per evitare che ogni Consiglio Regionale possa spostare altrove opere di qualsiasi tipo.

Questo mentre a poca distanza da noi le trivelle lavorano. Eni a inizio del 2015 si è aggiudicata una ulteriore licenza nell’Adriatico croato, per esempio.

Abbiamo chiesto alla Vicari se la stessa attenzione dedicata agli impianti italiani sia possibile per l’azione di altri Paesi, che pure sono a poca distanza da noi. Per esempio appunto la Croazia, che ad inizio 2015 ha assegnato una serie di concessioni petrolifere offshore in Adriatico a importanti multinazionali europee ed americane. I paesi dell’altra sponda dell’Adriatico e l’Italia dovrebbero cooperare nelle attività di esplorazione? Non c’è il rischio che il nostro Paese rimanga indietro, o al contrario debba fronteggiare problemi anche ambientali senza “beneficiare” delle attività industriali legate al petrolio e al gas?

Vicari ha risposto: “Riguardo la Croazia, le nostre strutture hanno frequenti e costanti incontri con le autorità croate su famiglie tematiche diverse tra loro: valorizzazione congiunta di giacimenti marini a confine, allineamento sui temi legati alla sicurezza, anche ambientale, delle attività in mare, prospettive di cooperazione, interconnessioni energetiche. Questo sforzo continuo va nel senso di una valorizzazione bilanciata tra entrambe le sponde delle ricchezze del sottosuolo, che massimizzi gli effetti positivi per le relative attività di sviluppo economico e che generi sinergie in caso di gestione comune di eventuali emergenze transfrontaliere (come richiesto dalla Direttiva 2013/30/UE). Ciò è ancora più vero se si pensa che, con il TAP autorizzato oggi dal Ministro da un lato e con le varie interconnessioni elettriche dall’altro, l’Adriatico acquisterà sempre maggiore centralità nelle politiche regionali e continentali”.

Uno dei punti che comitati, ambientalisti e no-triv considerano cruciale è quello della tecnica del cosidetto air-gun. Vicari spiega: “Il ricorso alla tecnica dell’ “air gun” è di fondamentale importanza, allorquando si voglia provare a conoscere l’intima natura geologica e strutturale del sottofondo marino, a prescindere dalle finalità della ricerca, ossia per il rinvenimento di idrocarburi o per una conoscenza tout court del sottofondo stesso. In sostanza, riuscire a studiare le modalità di propagazione di onde sonore nella porzione di interesse consente, attraverso elaborazioni, di ricostruire la geologia dell’area. Questo vale sempre, sia in terra che in mare. In mare, tuttavia, uno dei modi più semplici per generare un’onda sonora è quello di creare ed energizzare una bolla d’aria, la quale produce a sua volta le onde sonore richieste, utili allo studio. È una tecnologia semplice e in Italia, esempio unico al mondo, persino le istanze di prospezione in mare sono soggette a Valutazione di Impatto Ambientale, nelle cui prescrizioni compaiono solitamente tutta una serie di adempimenti obbligatori in capo all’operatore per far sì che il ricorso alla tecnica dell’ “air gun” avvenga in assenza di transito di banchi di pesci o in altre condizioni particolari”.

Durante il dibattito parlamentare sui cosiddetti “ecoreati” a un certo punto è stato anche prevista una pena per chi usa questa tecnica. “Sì, i movimenti ambientalisti hanno esultato dinnanzi a improvvidi emendamenti, volti a penalizzare con la reclusione il ricorso a detta tecnologia, ma solo nel caso di finalità minerarie. Come a dire che eventuali danni alla fauna ittica sarebbero dipesi dalle motivazioni per le quali si sarebbe fatto ricorso all’ “air gun” e non dalla tecnologia stessa. Lo sforzo del Governo, della comunità scientifica e di buona parte del Parlamento hanno fortunatamente scongiurato l’adozione di una norma punitiva per alcuni utilizzatori dell’ “air gun”, facendo salva la possibilità di continuare la ricerca mineraria e le opportunità di sviluppo economico nel pieno rispetto dell’ambiente e della fauna marina”.

Pochi giorni fa il governo ha ratificato una Direttiva Europea sulla sicurezza delle operazioni offshore. La direttiva prevede anche una “partecipazione del pubblico” sulle operazioni esplorative. Come si tradurrà questa partecipazione? “Tengo a precisare – continua Vicari –  che in sede europea più volte è stato ribadito dalla Commissione UE che le norme sulla “partecipazione del pubblico” in questa direttiva erano rivolte a sanare alcune importanti lacune di certi Stati Membri, che non assoggettano a Valutazione di Impatto Ambientale i propri progetti esplorativi. Questa manchevolezza è foriera di una mancata partecipazione del pubblico, il quale non può così avere la possibilità di essere reso edotto sull’esistenza di talune ipotesi progettuali né di prendere parte al processo di valutazione, magari formulando osservazioni. L’Italia, invece, applicando già da anni e nella maniera più conservativa la Valutazione di Impatto Ambientale alle fasi di prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi, è già ampiamente compliant in materia di partecipazione del pubblico ai sensi della Direttiva 2013/30/UE”.

(la versione integrale del post si può leggere sul blog di Paolo Martini)


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