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Spagna? Una crisi, tante opposizioni, nessun cambiamento

E’ appena un fuoco di paglia, la ripresa dell’economia spagnola, in attesa che inizi a sperimentare il costo del risanamento finanziario, una medicina che l’Italia conosce sin dal 1992. Dal +2,5% di quest’anno, il Pil crescerà solo del 2% nel 2016, per toccare il +1,8% nel 2017. In prospettiva, fino al 2020 secondo le previsioni del FMI, appena il +1,7%.

La crescita spagnola è stata drogata dal deficit di bilancio, che ormai si deve ridurre. Il peggio deve ancora venire, visto che il debito pubblico di Madrid è cresciuto linearmente in questi anni, e che ormai sfiora il 100% del Pil, dopo aver accumulato ben 64 punti a partire dal 2007. E’ un record europeo, secondo solo a quello dell’Irlanda, dovuto da una parte all’onere di 60 miliardi di euro contratto con l’ESM per il salvataggio delle banche, ma anche ad un deficit di bilancio che negli anni 2008-2015 è stato in media pari al 7,7% del Pil. Ancora nel 2014, il deficit pubbblico spagnolo è stato del 5,8%, mentre quest’anno dovrebbe scendere al 4,3%. Va poi considerato il saldo primario, il deficit al netto della spesa per interessi, è ancora negativo dell’1,6% del Pil, e volgerà in positivo, con appena lo 0,8% del Pil, solo nel 2018. Il rientro dal debito eccessivo sarà lungo e faticoso: assorbirà tutte le risorse della crescita rendendola anemica, con pesanti conseguenze sull’occupazione.

In Italia, tanto per fare il confronto, il saldo primario della PA è tornato positivo sin dal 2012, dopo un solo anno di passivo. L’anno scorso il saldo primario dell’Italia è stato positivo per 26 miliardi di euro, pari al +1,6% del Pil (il doppio di quanto si prevede in Spagna nel 2018), in netta contrazione rispetto al +2,2% del 2012, quando era stato pari a 35 miliardi: è il sintomo inequivocabile dell’affaticamento sociale, prima ancora che economico e finanziario. Anche il risanamento del debito pubblico italiano, tutto incentrato sull’accumulo del saldo primario, è ancora tutto da compiere, non appena si rifletta sul fatto che nel Def appena approvato si prevede che nel 2018 le spese per interessi saranno pari a 68 miliardi di euro mentre il saldo primario sarà di ben 77 miliardi di euro, passando così al 4,3% del Pil. E’ una percentuale doppia rispetto a quella del 2012, un numero a cui nessuno fa caso: messo lì solo per fare quadrare i conti con aumenti di entrate e tagli di spesa, partendo dal pareggio di bilancio e dalla riduzione del rapporto debito/pil, mentre il denominatore rimarrà praticamente fermo.

La crescita del Pil spagnolo non ha avuto grande impatto sul livello di disoccupazione, che ancora quest’anno sarà pari al 22,6%. E’ un tasso praticamente doppio rispetto a quello italiano, visto che la disoccupazione giovanile spagnola ha superato la soglia del 50%. Difficile stupirsi del malessere popolare, palesatosi alle recentissime elezioni amministrative: i cittadini guardano al posto di lavoro e non alle statistiche del Pil. Ciò che dovrebbe destare preoccupazione è la prospettiva di lungo periodo: ancora nel 2020, l’ultimo anno delle proiezioni elaborate dal FMI, si stima un tasso di disoccupazione del 16,8%. Questa percentuale, superiore di tre punti a quella del 2000, è  doppia rispetto al 2007, quando era dell’8,2%. La Spagna non tornerà mai più al benessere drogato dal debito estero, contratto dopo l’ingresso nell’euro.

L’effetto-euro è stato devastante per i saldi esteri spagnoli: mentre nel periodo 1980-1989 aveva accumulato un passivo pari all’8,9% del Pil (in media l’1% l’anno), nel periodo 1990-2000 aveva già duplicato questo deficit, giunto al 21,5%. Nel periodo 2001-2008, il disavanzo cumulato è ulteriormente raddoppiato, arrivando al 51,9% del Pil (in media il -6,5% annuo) con il picco del -9,6% raggiunto nel 2007. La Spagna ha importato di tutto, accumulando uno stock di debito verso l’estero arrivato a 1.078 miliardi di euro nel 2008, rispetto ad un Pil di 1.600 miliardi. Il ritiro del credito estero è stato violento, visto che già a fine 2012 era dimezzato a 569 miliardi di euro. La finanza tedesca, come era già successo in Grecia, era di casa: in Spagna, è passata da 39,2 miliardi di investimenti di portafoglio nel 2001 a 230 miliardi di fine 2009, per scendere a 169 miliardi a fine 2013. L’Esm, il Fondo salvastati che ha fornito alla Spagna le risorse per evitare il default delle sue banche, si è  sostituito come creditore, evitando guai ben peggiori alle banche dei Paesi che si erano esposte verso Madrid. Questa è la vera solidarietà dell’Eurozona, quella che fa salvi i crediti esteri delle banche, specie quelle francesi e tedesche, scaricandoli sulle collettività nazionali. Ovvio, quindi, che la Gran Bretagna non abbia aderito all’ESM.

Nonostante tutte le decisioni volte a liberalizzare il mercato del lavoro e ad aumentare la competitività estera abbassando i salari, il saldo della bilancia dei pagamenti di Madrid non è in grado di recuperare risorse consistenti. Il riequilibrio commerciale è stato drastico: nel 2014 il saldo corrente è stato attivo per 8,5 miliardi di euro (0,3% del Pil), ma all’orizzonte del 2020 si prevede che non supererà il +1,1%. Per quanto la componente commerciale sia migliorata nel suo complesso, la Spagna ha segnato ancora un forte passivo per le merci (-21,4 miliardi di euro) mentre i servizi sono stati attivi (+48,7 miliardi, di cui +35,4 relativi al turismo). Il passivo per trasferimenti di redditi, che è stato di 28,8 miliardi, è determinato dal costo degli interessi sugli investimenti stranieri. Al di là della disoccupazione endemica, il grado di concentrazione territoriale del malessere sociale che ha dato luogo ad una brusca riduzione del consenso verso i partiti tradizionali nelle recenti elezioni amministrative, può essere stimato dalla lettura dei dati relativi alle procedure fallimentari: nel primo trimestre dell’anno, su 1.560 casi registrati a livello nazionale (di cui ben 1.460 su base volontaria dell’imprenditore),  la metà dei casi ha riguardato la Catalogna (301 casi), dalla Comunità di Madrid (256 casi) e da quella di Valencia (250 casi). Non casualmente, sono queste le città in cui è stato più forte l’avanzata delle nuove formazioni politiche, dalla più diversa connotazione. A Madrid, “Ahora Madrid”, la lista appoggiata da Podemos, si è vista assegnare 20 seggi su 57 complessivi, il movimento “Ciudadanos” 7, il Psoe 9 ed il Partito popolare 21. A Barcellona, hanno vinto nettamente le formazioni appoggiate da Podemos, visto che “Barcelona en Comu-e” ha conquistato 11 seggi su 41 complessivi, “Convergencia y Uniò” ne ha avuti 10 e “Ciutadanos” altri 5. A Valencia, su 33 seggi complessivi, la “Coaliciò Compromis” ne ha avuti 9, “Ciutadanos” ne ha guadagnati 6, mentre il Psoe ed il PP ne hanno conquistati rispettivamente 5 e 10.

Il quadro politico spagnolo si è sfrangiato, superando il tradizionale bipolarismo, su cui si innesta l’autonomismo catalano. Il governo di mariano Rajoy si trova in difficoltà, soprattutto in vista delle elezioni politiche di novembre: non ha compreso che il dato della disoccupazione, come era già successo alle elezioni in Grecia, rappresenta il fattore dirompente. Ha puntato solo alla reputazione europea, come il suo omologo greco Antonis Samaras, che si è visto surclassare da Tsipras. Ci sono cambiamenti in vista, contro i “baroni”: anche a Madrid ci potrebbe essere dietro l’angolo una rottamazione della classe dirigente, un fenomeno mediatico che in Italia ha preso piede e su cui vale la pena riflettere. Se Esperanza Aguirre, candidata a Madrid, sta guidando la rivolta nel PP, c’è chi vorrebbe una grande coalizione dei partiti tradizionali per fermare “Podemos”, un po’ come è successo in Italia con il Governo Letta, e chi da sinistra si oppone, puntando in prospettiva ad una alleanza con i nuovi movimenti.

E’ facile cavalcare il malcontento che nasce dalla disoccupazione e dai fallimenti, sfruttandolo per dare addosso alla vecchia classe dirigente. Il punto è comprendere quale sia la funzione di un governo, anche nelle nazioni che più di tutte credono nel mercato e nelle sue supposte virtù, come gli Usa e la Gran Bretagna: l’obiettivo di ridurre la disoccupazione al 6% ha sempre rappresentato la stella polare della Fed e dell’Amministrazione Obama, così come è stato per la Banca di Inghilterra ed il Premier Cameron. Se anche la Cancelliera Merkel governa indisturbata da anni, e addirittura la SPD è tentata dal non presentare un proprio candidato per sostituirla alle prossime elezioni, è per via del tasso di disoccupazione della Germania, ai livelli più bassi di sempre. In nessuno di questi Paesi, meno di tutti in Germania, è stata usata la disoccupazione di massa per abbassare i salari ed aumentare la produttività. Al contrario, è stata assorbita con sistemi di occupazione a tempo parziale e precario, ampiamente assistiti dalle pubbliche finanze.

Solo il premier inglese David Cameron è stato confermato alle elezioni, dopo aver contestato tutto della recente politica europea, dal Fondo Salva Stati al Fiscal Compact, fino alla Banking Union. Ora di accinge a lanciare un referendum sulla permanenza nella Unione europea. Nel resto dell’Unione cadono le prime teste: dopo il greco Samaras a gennaio scorso, questa settimana è stata la volta del Presidente polacco  Komorowsky in Polonia, scalzati da Tsipras e Duda meno inclini ad obbedire senza discutere.

L’élite cosmopolita che si vanta della propria reputazione a Bruxelles tende ad assottigliarsi, ma i nuovi movimenti di opposizione sembrano costruiti a tavolino, per mettere appena un velo di maionese sullo stesso pane. Rinnovano una divisione sociale di comodo: buttata via la distinzione destra-sinistra, che metteva i lavoratori contro i padroni che li sfruttavano, adesso ci sono i giovani che sono defraudati dagli anziani, e così i “nuovi” soppiantano i “vecchi”. Come nel ’68, il sistema di potere vellica il ribellismo giovanile per celarsi meglio: ogni tanto, c’è bisogno di una buona potatura per rafforzare la pianta. A novembre, si vota in Spagna.

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