David Cameron come Winston Churchill? La moneta unica fu una sorta di Patto di Monaco, un nuovo cedimento allo strapotere tedesco scambiato per una stabilità sopo temporanea, volta ad isolare ancora una volta la Russia? Non sono riferimenti azzardati. Dopo aver detto di no al Fiscal Compact, all’Esm ed alla Banking Union, dopo aver contrastato in tutto e per tutto le strategie europee adottate per superare la crisi finanziaria, il premier inglese Cameron ha rivinto le elezioni, unico leader europeo ad essere stato confermato, ed ha lanciato un referendum popolare da tenere entro il 2017 per decidere sulla permanenza della Gran Bretagna nella Unione europea.
Chi ancora irride alla recente sconfitta di Nigel Farage e del suo UK Indipendence Party (UKIP) non si è accorto che invece è stato un loro trionfo strategico: con la propaganda anti europea, in questi anni sono riusciti a portare dalla loro parte l’intero Partito conservatore, ed ora anche i laburisti che hanno appena annunciato che non si batteranno per il no, opponendosi alla prospettiva di uscita dalla UE.
Intendiamoci: in Gran Bretagna c’è un fortissimo partito favorevole alla permanenza nell’Unione, lo stesso che in passato militava a favore della politica di appeasement nei confronti della Germania voluta da Chamberlain: quella che ricordava con preoccupazione la Francia di Napoleone che aveva sottomesso l’intera Europa e che guardava con gran terrore alla Russia rivoluzionaria. Sistemi antimonarchici, laicisti ed antitradizionalisti, capaci di svellere le istituzioni feudali su cui la società inglese prospera ancora: orrifici. E’ la stessa fazione che preferisce fare gli affari, quella stessa che militò negli Usa per l’entrata in guerra contro gli Imperi centrali solo quando la guerra sottomarina bloccò le merci dirette in Europa nei porti americani, facendo crollare le quotazioni di Wall Street. La stessa componente che si decise a sostenere l’Inghilterra nel conflitto contro la Germania hitleriana solo dopo aver subito l’attacco giapponese a Pearl Harbour. Si illude, oggi, chi pensa ancora che la Storia sia finita.
Un intero periodo storico volge alla fine: quello che, con il dissolversi dell’URSS e del comunismo nell’Europa dell’Est, vedeva sul finire del secolo scorso l’Europa unita come il bastione occidentale più avanzato, in grado di isolare la Russia. Nello scorso decennio, dopo l’attentato alle Torri gemelle di New York, la stessa strategia considerava le guerre in Afganistan, e poi Iraq, in grado di spostare in avanti la Cortina di ferro: per circondare da presso la Russia e contemporaneamente per evitare che la Cina potesse ricostruire la “Via della seta” verso l’Europa. Tutto era già cominciato, però, con la prima Guerra del Golfo.
Occorre ricostruire il mosaico, evitare di considerare i diversi scacchieri come separati, avulsi rispetto ad una strategia più complessiva. L’unipolarismo americano si è dimostrato insufficiente, ed il ritorno a una divisione in blocchi non può che passare per irrigidimenti e conflitti, con aree di turbolenza che segneranno i nuovi confini. Una nuova spartizione del mondo, fors’anche condivisa, con nuovi equilibri e nuovi terrori. L’Inghilterra che uscirebbe dalla Unione europea fa il paio con la crisi finanziaria della Grecia, così come le difficoltà di Italia, Spagna e Portogallo che ne rosicchiano il versante meridionale. Come nel Mediterraneo, il fronte si disgrega progressivamente, indebolendo l’assetto dell’Eurozona a guida franco-tedesca, dove Parigi fa appena da mosca cocchiera.
Gli stessi appelli a una sovranità europea condivisa, a un rafforzamento della governance volta a contrastare le tendenze alla disgregazione ed il pericolo della dissoluzione dell’euro, non ultimo quello appena lanciato dal Governatore della Bce Mario Draghi, cadono nel vuoto aperto dalle lacerazioni economiche e sociali aperte dalla crisi. Il successo clamoroso del Movimento 5 Stelle in Italia, primo in Europa, poi quello di Syriza in Grecia ed ora quello di Podemos in Spagna verrebbero contrastati solo con il commissariamento dei Parlamenti nazionali, devolvendo sempre più poteri a Bruxelles: si assiste al paradosso inverso, che trascura ancora una volta l’unità di tempo che scandisce i fenomeni eeali, con un Achille eurocratico capace di correre più velocemente della tartaruga democratica, per varare i Trattati necessari per cedere sempre nuove quote di sovranità. La crisi sociale, invece, si aggrava sempre più velocemente, a dispetto della narrazione agiografica dei media, ogni giorno di più.
Se la Gran Bretagna sta superando le enormi difficoltà create dalla crisi finanziaria del 2008, registrando tassi di crescita economica e di disoccupazione non lontani da quelli tedeschi, è solo perché aveva mantenuto la sterlina e non ha adottato nessuna delle strategie recessive sbandierate con il Fiscal Compact. L’Unione europea, dopo il varo dell’euro, è irriformabile: tutto è funzionale alla sopravvivenza della moneta unica. Le riforme strutturali necessarie a sostenerla sono irrealizzabili, senza un sistema di redistribuzione del reddito tra le aree più ricche e quelle meno sviluppate che la Germania non approverebbe mai: si fondano su un livellamento della produttività abbassando i salari, senza effettuare nuovi investimenti.
La sovranità condivisa a livello europeo, l’eufemismo ricorrente diero cui si cela la cessione della sovranità nazionale necessaria per esautorare i Parlamenti democraticamente eletti, serve solo a tenere in piedi la moneta unica, un disegno egemonico guidato dalla Germania. Il Patto a Quattro, l’accordo di Monaco, non fu la fine di un processo di faticoso riequilibrio, volto a riammettere la Germania nel contesto delle grandi potenze europee e dimenticare gli orrori della prima Guerra mondiale, ma solo il viatico per una estensione ulteriore delle mire tedesche: così è successo con l’euro. Per questo la Gran Bretagna ormai si tira fuori, mentre il resto dell’Europa arranca, si dispera e si ribella.
Mentre il Movimento 5 Stelle in Italia, Syriza in Grecia e ieri anche Podemos in Spagna stanno mettendo in crisi il bipolarismo, la Gran Bretagna deve vedersela al suo interno con l’indipendentismo scozzese che fa leva proprio sull’Europa per fare i conti con Londra.