Riprendiamo il filo di quel gran maestro che è Giuseppe De Rita e partiamo da lì: dalla situazione economica italiana in galleggiamento. La nostra società non ha subito lo shock della crisi con la stessa gravità di altri sistemi economici (a parte la Grecia), ma allo stesso modo non beneficerà con altrettanta intensità dei vantaggi della ripresa ed è ancora affossata dagli invertiti cicli negli anni della crisi perfida e interminabile (-8% il Pil e -6,5% i consumi tra il 2008 e il 2014).
Ma nonostante ciò l’efficacia della tenuta italiana si deve ai comportamenti collettivi. Dal risparmio cautelativo al consumo sobrio ed essenziale, dalla minore propensione all’indebitamento delle famiglie alla rinnovata spinta patrimonialista (che però immobilizza i capitali), dalla ridotta finanziarizzazione dell’economia al nuovo sommerso, fino alla riconferma di un modello di piccola impresa e di welfare familiare, caratteri italici di un meccanismo con riequilibri interni al sistema tra risparmi, consumi, investimenti, comportamenti di adattamento sommerso che prima ha ammortizzato l’urto della crisi, ma che oggi rende più difficile acchiappare la ripresa.
Così se (ma pare di sì) arriva la ripresa, le imprese sarebbero pronte ma la politica è inchiodata anche a causa di una pubblica amministrazione inefficiente. Gli italiani e le italiane anche ulteriormente arrabbiati dalla corruzione esplosa e riesplosa , chiedono pene severe per corrotti e fannulloni, licenziamenti nel pubblico impiego,poiché vi è un tappo insopportabile dell’economia imprenditoriale anche a causa di una Pubblica amministrazione inefficiente che la politica non riesce a riformare.
Dai dati delle Camere di commercio sappiamo che il nostro Paese conta su in milione di imprese in rampa di lancio, oltre un milione di società di capitali attive: sono le più robuste e strutturate nell’universo di 5,2 milioni di imprese italiane complessive, quelle in grado di attirare risorse e mettersi in marcia verso la ripresa. Sono comunque aumentate del 105% tra il 2000 e il 2014 e del 33,5% anche negli anni di crisi 2007-2014. E ci sono 212.000 imprese esportatrici e soggetti economici che fanno business all’estero per un valore dell’export pari nell’ultimo anno a 380 miliardi di euro.
Crollo del prezzo del petrolio, euro debole sul dollaro e denaro a basso costo mettono il turbo alle imprese italiane che vanno per il mondo. Nemmeno nella crisi è venuto meno il vizio antico degli italiani del fare impresa: a fine 2014 si è registrato un saldo attivo di 32.000 imprese aggiuntive. Gli effetti positivi si vedono soprattutto nella ristorazione (quasi 11.000 imprese registrate in più nel 2014) e nel commercio (+7.500 imprese), oltre che nei servizi alle imprese (+9.300). Decollano anche le startup innovative, tra commercio online, servizi mobile: sono oggi più di 3.500.
E allora la priorità sociale nella ripresa è la creazione di lavoro. Il bilancio dell’occupazione nel periodo della crisi testimonia la perdita di 615.000 posti di lavoro e l’aumento del lavoro a tempo determinato. Sui nuovi assunti del 2013 le persone con contratto a tempo determinato (inclusi i cocopro) sono state il 60,2% del totale, e come abbiamo già segnalato, tra i giovani la percentuale sale al 69,6%, comprese ovviamente anche le giovani donne, mentre per le donne adulte rimane ancora una forbice troppo ampia tra chi è riuscita ad entrare e rimanere nel mercato del lavoro e chi ne rimane fuori.
Ora che l’Istat annuncia la ripresa dobbiamo porre l’attenzione per chi entra nel mercato del lavoro perché non si creino fasce di lavoratori penalizzati e facilmente ricattabili se non si governa con equilibrio il processo riformatore dei contratti a tutele crescenti. Sicuramente le aziende non assumerebbero nuovo personale devono poterlo mandare via se non vale, ed è comprensibile la progressività perché le nuove forza lavoro è meno capace e produttiva e deve imparare. Ma non solo: attenzione alle discriminazioni e alle Pari opportunità, ma anche introduzione di agevolazioni fiscali per chi assume risorse umane femminili.
Oggi, mentre scriviamo, le persone a rischio di povertà o esclusione sociale in Italia sono aumentate di oltre 2,2 milioni negli ultimi sei anni di crisi: sono passate da 15.099.000 a 17.326.000. Il tasso di persone a rischio di povertà o esclusione sociale è pari al 28,4% in Italia, superiore a Spagna (27,3%), Regno Unito (24,8%), Germania (20,3%) e alla media dell’Ue (24,5%). Le disuguaglianze sono aumentate perché chi meno aveva più ha perso: nell’ultimo anno gli operai hanno avuto un taglio della spesa media familiare mensile del 6,9%, gli imprenditori del 3,9% e i dirigenti dell’1,9%.
Ci sono poi due grandi ambiti che indichiamo per rivitalizzare spazi imprenditoriali e nuove occasioni occupazionali. Il primo è il processo di radicale revisione del welfare: crescono il welfare privato (il ricorso alla spesa «di tasca propria» e/o alla copertura assicurativa), il welfare comunitario (attraverso la spesa degli enti locali, il volontariato, la socializzazione delle singole realtà del territorio), il welfare aziendale, il welfare associativo (con il ritorno a logiche mutualistiche e la responsabilizzazione delle associazioni di categoria).
Il secondo ambito è quello della economia delle relazioni e digitale: dalle reti infrastrutturali di nuova generazione al commercio elettronico che non significa annullamento delle relazioni sociali, anzi! L’ elaborazione intelligente di grandi masse di dati agli applicativi basati sulla localizzazione geografica e la messa a disposizione della società attiva, lo sviluppo degli strumenti digitali, i servizi innovativi di comunicazione, la crescita massiccia di giovani «artigiani digitali» e di un popolo adulto che vuole impadronirsi anche dei computer.
Il filo rosso che può fare da nuovo motore dello sviluppo è la connettività (non banalmente la connessione tecnica) fra i soggetti e persone in carne ed ossa coinvolte in questi processi. Dobbiamo essere meno individualisti, egoisti, meno resistenti a mettere insieme esistenze e obiettivi, più immedesimazione nell’interesse collettivo e nelle istituzioni. Possiamo spingere le istituzioni ad essere meno autoreferenziali, meno avvitate su se stesse, condizionate dagli interessi delle categorie, avulse dalle dinamiche che dovrebbero regolare, pericolosamente politicizzate, con il conseguente declino della terzietà necessaria per gestire la dimensione intermedia fra potere e popolo.
E la connettività la relazione attiva e reciproca non può lievitare nemmeno nella dimensione politica, che è più propensa all’enfasi della mobilitazione che al paziente lavoro di discernimento e mediazione necessario per fare connettività, scivolando di conseguenza verso l’antagonismo, la personalizzazione del potere, la vocazione maggioritaria, la strumentalizzazione delle istituzioni, la prigionia decisionale in logiche semplificate e rigide (dalla selva dei decreti legge all’uso continuato dei voti di fiducia).
Se istituzioni e politica non sembrano in grado di valorizzarla, la spinta alla connettività sarà in orizzontale, nei vari sottosistemi della vita collettiva. Noi ne siamo certe: se questa società è lasciata al suo respiro più spontaneo, produce frutti più positivi di quanto si pensi. Sarebbe cosa buona e giusta fargli «tirar fuori il fiato». A questo noi puntiamo.