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Perché il prossimo presidente Usa può essere repubblicano

Sarà il movimento dei Tea party – sorto a ca­vallo tra il 2009 e il 2010 in reazione al dram­matico aumento della spesa pubblica opera­to dai presidenti Bush e Obama – a decidere il campo in cui si giocherà la campagna elet­torale per le presidenziali Usa in programma per l’8 novembre 2016. A metà dell’aprile 2009 i Tea party organiz­zarono un migliaio di manifestazioni cui presero parte un milione di americani, per protestare contro i nuovi progetti di spe­sa pubblica dell’amministrazione Obama e contro un sistema sanitario controllato dallo Stato.

Il movimento ha poi saputo pilotare le elezioni del novembre 2010 riuscendo a far vincere i repubblicani alla Camera dei deputati e ad aumentare di sei i seggi re-pubblicani al Senato. Quanto ai singoli Stati dell’Unione, in quella tornata elettorale, 24 scelsero governi repubblicani e solo 7 opta­rono invece per governi monocolore demo­cratici. Dopo quel voto, gli Stati a piena regia repubblicana governavano metà della popo­lazione americana, mentre solo un quarto di essa viveva in Stati a totale controllo demo­cratico.

Obama è poi stato abile nel farsi rieleggere nel 2012, ma nel 2014 un nuovo grande suc­cesso ha consegnato ai repubblicani anche il controllo del Senato federale. L’altro grande cambiamento del 2016 rispet­to al 2008 e al 2012 è rappresentato dalla for­za dei candidati repubblicani in corsa per la presidenza. Nelle due precedenti elezioni vi erano solo uno o due candidati di spicco, più una decina di personalità in secondo piano che in realtà non sono mai stati dei veri e propri contendenti per la presidenza. Ora, invece, il governatore Scott Walker del Wisconsin, il governatore Chris Christie del New Jersey, il governatore Rick Perry del Te­xas, il governatore Bobby Jindal della Louisia­na e l’ex governatore Jeb Bush della Florida, nonché i senatori Rand Paul del Kentucky, Ted Cruz del Texas e Marco Rubio della Flo­rida hanno tutte le carte in regola per essere dei buoni candidati alla presidenza in grado di raccogliere fondi per la campagna, con grandi personalità e storie di successo alle spalle.

Walker ha cambiato le leggi del Wisconsin sul lavoro, riducendo lo strapotere dei sinda­cati e negando loro i 100 milioni di dollari l’anno in quote sindacali obbligatorie. Perry ha governato per 14 anni il Texas, lo Stato che è cresciuto più rapidamente rispetto agli altri. Bobby Jindal ha trasformato la Louisia­na in uno Stato repubblicano, restituendo ai genitori la libertà di scelta nell’educazione dei figli. Jeb Bush ha più volte tagliato le tas­se, riducendo anche il numero degli impie­gati statali. Rand Paul guida l’ala libertarian dell’attuale Partito repubblicano ed è riusci­to ad aumentarne i consensi tra le minoran­ze e i fautori di maggiori libertà civili. Le primarie democratiche, invece, avranno un solo vero candidato: l’ex first lady Hilla­ry Clinton. Una seconda testa di serie non c’è.

Hillary Clinton è indubbiamente un candidato democratico forte. Ma è uno solo. Certamente non otto come in casa repubbli­cana. Ciò significa che se Hillary dovesse incappare in un qualche scandalo, magari rela­tivo a certe sue e-mail distrutte, alla raccolta fondi operata dal marito o se dovesse com­mettere qualche passo falso in campagna elettorale, non ci sono né piani B né squa­dre B. Una volta era il Partito repubblicano quello che riusciva a far bocciare candidati forti come Eisenhower, Nixon o Reagan. Ma adesso i ruoli sembrano invertiti. L’argomen­to elettorale principale di Hillary Clinton è che con lei gli Stati Uniti eleggerebbero il primo presidente donna.

La Clinton sperava di poter sfruttare elettoralmente l’incarico come segretario di Stato, ma l’invasione rus­sa dell’Ucraina, il crollo americano in Afgha­nistan e in Iraq, il disastro in Libia e in Siria non mettono in buona luce i suoi pregressi. Per questo oggi porta avanti la sua candidatu­ra in quanto prima donna e seconda Clinton in corsa, promettendo che governerà come suo marito. Insomma, buoni argomenti per una dinastia. Il punto è che la crescita economica statu­nitense è stata debole. Se la ripresa iniziata sei mesi dopo l’elezione di Obama fosse stata forte come quella dei tempi di Reagan, oggi lavorerebbero 10 milioni di americani in più e il Pil avrebbe 2,2 miliardi di dollari aggiun­tivi. Del resto, dalla troppa facilità con cui gli Stati Uniti si sono impegnati militarmente all’estero ai costi esagerati dell’apparato fede­rale, gli errori di Bush qualcosa d’importante ai repubblicani l’hanno insegnato.

Ed è meri­to dei Tea party se oggi il Partito repubblica­no è cambiato, trasformandosi in un fiero av­versario della spesa pubblica (non solo, cioè, dell’aumento delle tasse). Rinnovato, il Par­tito repubblicano ha finalmente eliminato i capitoli speciali di spesa che spesso veniva­no varati a beneficio di un determinato Stato dell’Unione o di una determinata industria. Un tempo considerati legittima prerogativa del Congresso e lubrificante del compro­messo legislativo, adesso i capitoli speciali di spesa sono visti solo come corruzione e spreco. In dieci anni, la Camera dei deputa­ti a guida repubblicana è riuscita a ottenere dall’amministrazione Obama il taglio di ben 2,5 trilioni di dollari, vale a dire la più mas­siccia riduzione della spesa pubblica di tutta la storia americana.

Gli americani voteranno allora contro le guerre di Bush o contro la politica estera Oba­ma-Clinton degli ultimi otto anni? Voteranno contro la debole ripresa di Obama o contro la recessione di Bush? Vedranno nel candi­dato repubblicano alla presidenza un nuovo Reagan votato alla causa della crescita econo­mica? La Clinton sarà vista come l’ennesimo sprecone progressista o riuscirà a convincere gli elettori di essere “diversa”? I Tea party hanno cambiato il Partito repub­blicano concentrandosi sulla riduzione del­la spesa pubblica e delle tasse, chiedendo al ceto politico di combattere con maggior vi­gore quello statalismo che cerca di controlla­re le nostre esistenze. Questa politica ha già prodotto grandi vittorie tanto nel Congresso federale quanto nei singoli Stati dell’Unione. Riuscirà nel novembre 2016 a conquistare l’intera nazione?

Grover Norquist, fondatore e presidente dell’Americans for tax reform – Atr

Articolo tratto dal numero 104 (Giugno 2015) della rivista Formiche

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