Una signora oltre la mezza età, ben vestita, capelli in ordine, rughe non mascherate, parla al tavolo di un bar, davanti a una tazza di caffè, con una coppia oltre la trentina: lui un imprenditore, lei un’insegnante. Una zia cui i nipoti chiedono un consiglio? Magari un aiuto? No: è la scena icona della “nuova campagna” senza fanfare e lustrini di Hillary Rodham Clinton, che ha deciso di correre per la nomination democratica alla Casa Bianca: per il momento, pochi eventi oceanici, anzi proprio nessuno; e tanti incontri con gente qualsiasi della classe media, lungo le strade e nelle cittadine d’America, sulle aree di sosta delle motorway dello Iowa e del New Hampshire, gli Stati che apriranno, nel gennaio del 2016, la stagione delle primarie.
Un tweet per annunciare la candidatura e poi, da allora, una sorta di dialogo porta a porta, una serie di micro-eventi “intimi”, lei e piccoli gruppi di potenziali elettori, con l’ansia di ricominciare – bene – là dove, nello Iowa, otto anni or sono, tutto cominciò a scricchiolare: nelle assemblee di partito che in quello Stato rurale del mid-west assegnano i primi delegati agli aspiranti alla nomination, Hillary, a sorpresa, finì terza, dietro un avvocato dell’Illinois, nero, senatore al primo mandato, Barack Obama, e all’ex candidato alla vice presidenza nel 2004, John Edwards. Edwards sparì presto dalla corsa e dalla politica, spazzato via da tristi (e brutte) storie personali.
Obama arrivò fino in fondo: strappò la nomination alla Clinton, conquistò la Casa Bianca. Questa volta Obama non ci sarà: eletto due volte, è fuori gioco. E l’avversario del 2008 è oggi divenuto un alleato: chiamando Hillary a fare il segretario di Stato dal 2009 al 2013, ha consentito all’ex first lady (1993-2001) e senatrice dello Stato di New York (2001-2007) di tornare a essere protagonista dopo la sconfitta e di acquisire esperienza e statura internazionali. Sancita l’alleanza con il clan più potente della politica americana lato democratico, i Clinton, il presidente uscente appoggia nella corsa alla nomination Hillary, che incarna la speranza dei democratici di conservare la Casa Bianca, dopo avere perduto il Congresso nelle elezioni di mid-term del 2014.
E, infatti, finora, nessun democratico autorevole ha sfidato la Clinton: per lei, più che antagonisti si cercano agnelli sacrificali, tipo il senatore del Vermont, Bernie Sanders, che si autodefinisce “un socialista”, troppo a sinistra per essere un candidato credibile alla Casa Bianca; lo scegliessero, i democratici perderebbero di sicuro le elezioni. Diametralmente opposta la situazione nel campo repubblicano, affollatissimo: un sacco di uomini, come i senatori Ted Cruz del Texas, Rand Paul del Kentucky, Marco Rubio della Florida, tutti vicini al Tea party, e un neuro-chirurgo di fama mondiale, Ben Carson, nero e ultra-conservatore; e pure una donna, Carly Fiorina, una manager, già amministratore delegato della Hewlett-Packard, ma che in politica in passato fece flop.
In attesa di Jeb Bush, quello che darebbe alla sfida del 2016 un sapore retrò: Bush contro Clinton, come nel 1992, quando il marito di Hillary, Bill, batté il padre di Jeb, George, presidente in carica. Quasi che gli americani subissero il fascino dei nomi e delle dinastie: Jeb, figlio e fratello di presidente, è un altro simbolo di quelle longevità politiche familiari che apparentano gli Usa all’Italia. Anche il Time ne avverte il peso: nella sua lista delle 100 personalità più influenti del pianeta, ci sono sia Hillary sia Jeb e nessun altro potenziale presidente. Nel Dna della politica statunitense degli ultimi settant’anni almeno, c’è tutto ciò: le dinastie, a iniziare dai Kennedy; gli “a volte ritornano”, ché la seconda chance è un ingrediente del sogno americano, a cominciare da Richard Nixon, battuto nel 1960, vincitore nel ‘68; e, infine, le partite rigiocate, come accadde negli anni Cinquanta, quando i democratici mandarono due volte l’ambasciatore Adlai Stevenson contro il generale Dwight Eisenhower (e persero due volte).
E, certo, verso Usa 2016 la voglia di usato sicuro e di brand conosciuti pare davvero forte, se si pensa che una possibile alternativa alla sfida Clinton-Bush è un match Kerry-Bush, quasi una riedizione tale e quale di quello 2004: Kerry è lo stesso – John, allora senatore, attualmente segretario di Stato e Bush il fratello. Attenti, però, a schernire gli americani, come se gli alfieri dell’innovazione, il Paese di Steve Jobs, di Facebook e delle startup nei garage, si limitassero a scelte politiche di sapore antico. Se Clinton-Bush sa di vecchio, una donna alla Casa Bianca per la prima volta, dopo un nero per la prima volta, sarebbe una novità forte. Perché la scelta di una partenza in sordina della campagna?
La strada è lunga, oltre 500 giorni all’Election day dell’8 novembre 2016, e bisogna evitare la ubris, ritrovare il contatto con la gente. “Non fa campagna da un bel po’ – spiega lo stratega democratico Steve Elmendorf – e deve ritrovare il suo equilibrio… Tutti i candidati traggono beneficio dall’ascoltare la gente e farsi un’idea di quali preoccupazioni abbiano”. E poi l’ex first lady non ha bisogno di farsi conoscere, all’esatto opposto dei candidati repubblicani, nessuno dei quali, a eccezione di Jeb Bush, ha davvero notorietà nazionale. Parte del disegno è la versione aggiornata della sua biografia, Hard choices, con gli ultimi giorni da segretario di Stato e la tempesta di sentimenti provocata dalla nascita della nipotina Charlotte, figlia di Chelsea. “Diventare nonna mi ha fatto riflettere a fondo sulla responsabilità che tutti condividiamo per il mondo che ereditiamo e che un giorno consegneremo – scrive – […] Piuttosto che farmi rallentare, mi ha spronato ad accelerare”.
Nei mesi precedenti l’annuncio della sua candidatura, la Clinton ha messo un’attenzione meticolosa per costruire il suo staff: ha recuperato “clintoniani” prestati all’amministrazione Obama, come John Podesta e la responsabile della comunicazione Jennifer Palmieri, ha pescato un giovane guru come Robby Mook, gli ha affiancato gente esperta come Matt Paul, Brenda Cole e Lily Adams; e ha messo il quartier generale a Brooklyn, dove ha affittato un vasto spazio. Lavoro da fare, di qui alla nomination ed eventualmente poi alle elezioni, ce n’è un sacco. Mica sono tutte rose e fiori: se la candidata si concentra su economia e famiglie, i repubblicani frugano fra le ombre del passato di Hillary: “Non fanno altro che parlare di me”, constata lei.
Polemiche per le donazioni di governi stranieri alla Fondazione Clinton, per l’uso della mail privata anche quand’era Capo della diplomazia statunitense, per i soldi ricevuti per i suoi discorsi, per la gestione dell’attacco al consolato degli Usa a Bengasi che, l’11 settembre 2012, provocò quattro vittime americane, l’ambasciatore Chris Stevens e tre marines. E Wikileaks l’accusa d’avere copiato il suo logo. E il peggio deve ancora venire: contro Hillary, i repubblicani spareranno a zero solo quando sarà ufficialmente la candidata democratica. Fino ad allora, la terranno sulla graticola, ma penseranno soprattutto a scannarsi fra di loro per scegliere il loro campione.
Giampiero Gramaglia, vice direttore di LaPresse e consigliere per la comunicazione dell’Istituto per gli Affari Internazionali, già corrispondente da Washington
Articolo tratto dal numero 104 (Giugno 2015) della rivista Formiche