Articolo tratto da Nota Diplomatica
Passare le giornate ammazzando le persone e aspettando di essere ammazzati è faticoso e logorante. L’usura sui combattenti sopravvissuti è nota, come anche gli effetti mentali, più spesso riassunti ormai con la sigla Pstd – “Post Stress Traumatic Disorder” – un fenomeno molto studiato sulle truppe americane a partire dai veterani del Vietnam.
Gli alti costi sociali, materiali e – forse soprattutto – politici del combattimento personale sono motivazioni importanti dell’entusiasmo Usa per la “guerra dei droni”. È un metodo d’uccisione organizzata perfettamente speculare rispetto a quello del kamikaze o della “bomba umana” jihadista.
Come il filosofo francese Grégoire Chamayou ha fatto notare, il precetto dei kamikaze era “il mio corpo è un’arma”, mentre per i piloti dei droni, seduti davanti a un terminale in una sala aria-condizionata: “la mia arma non ha un corpo”.
La percezione che “si bara” a uccidere senza rischiare nulla in prima persona, insieme con la comune opinione mediorientale che è “da codardi”, ha portato gli americani a una certa insistenza sul supposto trauma da stress subìto anche dai piloti dei droni, per far vedere che pure loro soffrono a uccidere. Il problema è che non sembra sia così.
Secondo lo psicologo militare Hugo Ortega, che li ha studiati, questi soggetti sono sì stressati, ma non perché uccidono con un click del mouse. I fattori che incidono di più sarebbero i “lunghi turni, l’orario ballerino, la scarsità del personale e la terribile noia della vigilanza giorno dopo giorno. Le infermiere che fanno il turno di notte, tutti quelli che lavorano ai turni in rotazione, dicono le stesse cose”.
È la perfetta industrializzazione della guerra. Non è pericolosa, non è nemmeno interessante.