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Fca, ecco le vere mire di Marchionne

Il destino vuole che, non appena la popolarità di Sergio Marchionne sale su una sponda dell’Atlantico, immediatamente scenda sull’altra. Anche stavolta la regola si ripete: in Italia, il gruppo Fiat Chrysler fa di nuovo notizia per assunzioni ed investimenti, in attesa del decollo, il 24 giugno, della prima delle otto nuove Alfa destinate a lanciare il gruppo nel ristretto novero dei produttori premium. Nel frattempo, prosegue l’idillio con Matteo Renzi. E negli stabilimenti del gruppo rimessi a nuovo, da Grugliasco a Melfi e Pomigliano, si respira un’aria di partecipazione forse inedita nella storia ultracentenaria di Fiat.

Diverso il copione nelle Americhe. Tra pochi giorni Fiat Chrysler dovrà comparire di fronte alla Commissione della Sicurezza Stradale Usa che ha in pratica imposto (cosa mai successa ad un grande gruppo) l’esame di tutti i prodotti del gruppo degli ultimi dieci anni. E’ la risposta di Washington al rifiuto di Marchionne di piegarsi a sanzioni legate a veicoli disegnati in epoche precedenti alla sua gestione. Più grave l’ostilità di Gm e lo scetticismo di buona parte della comunità finanziaria alle avances di Fca nei confronti di Gm o, in subordine, di altri gruppi dell’auto.

Insomma, sembra che Marchionne ci provi gusto a stare sulla linea del fuoco. Ma con quale obiettivo? E quali carte da giocare nell’ennesimo poker?

A leggere la premessa alle “Confessioni di un drogato di capitali”, cioè l’analisi del mercato dell’auto consegnata agli analisti in occasione della trimestrale, le considerazioni di Marchionne hanno un valore generale, quasi un outlook sul futuro del settore che, viste le dimensioni della sfida finanziaria, tecnologica e regolamentare alle porte, ha secondo lui urgente necessità di una campagna di M&A. Nel mondo, entro il 2020, il settore prospererà solo se ci saranno tre Big da 15 milioni di pezzi ciascuno. Facile prevedere che i tre eletti saranno Volkswagen, Toyota e Gm, il potenziale partner preferito da Marchionne.

Il consolidamento, insomma, dovrebbe riguardare tutti. Ma Fiat Chrysler prima e più di tutti. Per vari motivi. Ci vogliono, innanzitutto, spalle finanziarie più solide, per sostenere gli investimenti. Il gruppo ha dovuto rinviare al 2016 il rinnovo di alcuni modelli in Usa per concentrarsi sul piano Alfa. Le vendite del gruppo sono in forte crescita sul mercato europeo. Ma, come Max Warburton, di Alliance Bernstein, «la redditività di un’auto vendute nel Vecchio continente è molto, molto inferiore a quella di una venduta in Cina o nella parte dei mercati emergenti”.

Negli Usa il gruppo continua a macinare record (62 mesi consecutivi di crescita). Ma il suo margine di profitto nella regione (3,7% circa nel trimestre) resta però nettamente inferiore al 6,7% di Ford e all’8,8% di General Motors. E non sarà facile, in occasione del rinnovo del contratto a settembre, difendere le condizioni salariali di oggi, che prevedono un assai minor costo orario del lavoro rispetto a Ford e Gm. Il vero buco nero, però, rischia di essere il Brasile, dove Fiat resta leader ma in un mercato che nel 2015 arretrerà del 18%, ai livelli del 1998.

Insomma, Marchionne non ha necessità di sistemare Fca, che si accinge a raccogliere i frutti dell’Ipo Ferrari. Ma le ragioni per spingere in direzione di una ennesima rivoluzione non mancano. Senza sottovalutare l’ambizione dell’uomo cui manca l’ennesima grande impresa per salire sul podio quale numero uno dell’auto nel XXI° secolo. Ma per riuscirci, ci vorrà più audacia (e fortuna) che cinque anni fa, quando Marchionne riuscì a convincere Obama ad affidare la disastrata Chrysler al gruppo italiano invece che procedere alla fusione con Gm, come oggi sogna lo stesso Marchionne. General Motors è il bersaglio ideale per Fca, perché si tratta dell’unica public company del settore.

Altrove le ambizioni di Fiat si dovrebbero misurare con un nucleo forte di azionisti oltre che con un management consolidato. In Gm, come ha dimostrato la recente offensiva dei fondi activist che hanno chiesto ed ottenuto un buy back di 5 miliardi, non esiste una proprietà forte. La leadership del ceo Mary Barra, indebolita dallo scandalo dei difetti di produzione delle auto del gruppo, non è paragonabile al carisma del ceo italo-canadese. Gm, insomma, sembra vulnerabile di fronte ad un’offensiva ben orchestrata, con il supporto di una squadra adeguata (già reclutata da Fca) su più fronti: sindacato, governo e Wall Street, soprattutto, che potrebbe essere attratta dalla miglior performance di Fca rispetto a Gm.

Anche così la scalata sembra quasi impossibile. Ma con Marchionne è di rigore ricordarsi che non si deve “mai dire mai”.



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