Dalla Siria a Vienna a piedi. E chi ci crede? Come San Tommaso, solo di fronte alle foto di piedi gonfi e sanguinanti mi arrendo (mi sento in colpa), decido di mettere da parte la mia diffidenza e di ascoltare la storia di Ceowges, che ha dei confini inverosimili.
E’ uno dei profughi della stazione di Milano Centrale. Un ragazzo trentenne, ha la faccia pulita, il fisico asciutto e lo sguardo vissuto, quello di chi ha visto tante, troppe cose nella sua vita. Ceowges ha davvero portato sulle sue gambe la speranza di una vita migliore. “Non lo so neppure io per quanti giorni ho camminato” spiega in un inglese che fa invidia a quello di qualsiasi italiano medio e prosegue: “Prima della guerra in Siria facevo l’ingegnere, poi sono dovuto scappare. Non avevo alternative”.
Al suo fianco l’amico con cui ha condiviso la lunghissima “passeggiata”. Lui preferisce non parlare e non farsi fotografare “ha lasciato a casa moglie e figli e teme di metterli in pericolo qualora venisse riconosciuto” mi spiega Ceowges.
Dall’Austria sono arrivati a Udine in treno, qui sono stati fermati e registrati. Poi il viaggio è proseguito, sempre sulle rotaie, fino a Milano. Qui si cerca di sopravvivere, almeno fino a quando non riapriranno le frontiere. “Sogno solo di ricongiungermi con la mia fidanzata che è rimasta in Siria e riuscire a ricostruire la nostra vita insieme”.
Un desiderio “normale”, in comune con il cuore di ognuno di noi. Coco, invece è poco più che adolescente, ha 17 anni. Si aggira nel piazzale antistante alla stazione, ha fame. Lo avvicino ma mi schiva. Gli spiego che voglio sapere solo come si chiama e lui bisbiglia: “Coco”. Un amico dietro di lui urla: “The pilot Coco”. Ridono insieme. E quasi come se in due fosse più facile fidarsi, si avvicinano e mi raccontano che il loro sogno è diventare piloti, piloti di aereo. Sul viaggio che hanno dovuto affrontare dall’Eritrea a Milano neppure una sillaba. “We don’t remember” mi dicono, credo che non vogliano proprio ricordare.
Infine incontro Ghaydaa, stringe tra le mani un peluche a forma di orso. Glielo hanno regalato per uno dei suoi figli che, a pochi passi da lei, disegna insieme agli altri bambini e a una volontaria. E’ cristiana, lo intuisco dalla croce che porta al collo. La fisso, se ne accorge, sorride. Parla pochissimo e solo in arabo. In Siria era una maestra, è scappata con i figli. Il marito e il primogenito maschio invece sono rimasti ad Aleppo. “Spera che prima o poi la raggiungano” mi dicono a mezza bocca gli altri profughi. Sradicarsi non deve essere infatti cosa semplice, lo raccontano le sue rughe, eloquenti più di qualsiasi discorso…