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Perché la flemma della Fed è salutare per l’Europa

Il ritorno alla normalità dei tassi sul dollaro dipende esclusivamente dai dati relativi all’andamento dell’economia americana: non saranno né la volatilità dei mercati, né le conseguenze indesiderate sulle altre economie, comprese quelle emergenti, a guidare le decisioni della Fed. Quale che sia la data in cui si prenderà la decisione, a settembre o a dicembre, oppure a marzo del prossimo anno, sarà comunque una manovra graduale, che non dovrà essere sopravvalutata: si dovrà guardare all’intera struttura dei tassi. Siamo ancora alle prove generali della manovra di uscita dal dollaro a costo zero, che non sembra affatto imminente.

LE MIRE USA

Il dollaro è americano e verrà gestito dalla Fed esclusivamente sulla base delle esigenze della economia stutunitense e dei suoi andamenti, al fine di perseguire gli obiettivi del duplice mandato, massima occupazione e stabilità dei prezzi. Valuta globale, gestita però secondo gli interessi nazionali.

LE MOSSE DELLA FED

La Governatrice della Fed Janet Yellen ha ritenuto necessario chiarire, nella conferenza stampa seguita alla riunione del Fomc dello scorso 17 giugno, che le decisioni della Fed, come anche quelle del Fmi, devono  essere guidate esclusivamente dalla oggettività dei dati economici: è questa la migliore garanzia per i mercati, per riaffermare la totale autonomia da considerazioni di altra natura, anche a costo di pagare il prezzo della volatilità dei mercati.

LE DIFFERENZE CON LA BCE

Di certo, l’irrazionalità distruttiva, e soprattutto le condizioni di ingovernabilità monetaria che hanno caratterizzato l’euro nel 2012, tanto da indurre la Bce a predisporre il meccanismo dell’acquisto di titoli di Stato senza limiti prefissati (OMT), sembra una ipotesi del tutto irreale per la Fed ed il dollaro. Infatti, rispetto alla preoccupazione manifestata dalla direttrice del FMI Christine Lagarde, che un aumento deciso già quest’anno possa determinare volatilità ed indesiderabili spillover, Janet Yellen ha detto di non poter promettere che non ci sarà volatilità quando si deciderà di aumentare i tassi, ma che adopererà al massimo per comunicare chiaramente quale sarà la politica adottata dalla Fed e le sue aspettative, per evitare ogni tipo di inutile incomprensione che possa creare volatilità sui mercati e potenziali spillover anche nei confronti dei mercati emergenti. Bruciano, forse, le critiche furibonde mosse nel marzo del 2012 dall’allora ministro brasiliano dell’economia Guido Mantega, che accusava il Qe3 deciso dalla Fed di aver creato le condizioni per uno tsunami monetario.

LA TEMPISTICA

Per fortuna, le condizioni congiunturali dell’economia americana allontanano il momento della prova. Con la fuga in corso dei depositi bancari dalla Grecia, e l’incombente timore di un default di Atene per via del trascinarsi senza esito delle trattative sugli aiuti, una manovra restrittiva sui tassi americani avrebbe comunque provocato una ondata di capitali verso il dollaro alla ricerca di migliori rendimenti, che può innescare una pericolosa fuga dal rischio-euro.

LA POLITICA ACCOMODANTE

La Fed continua quindi a stare alla finestra, ancora ben chiusa: i dati congiunturali suggeriscono  di mantenere la politica monetaria accomodante. Indicare una data, anche prossima, per aumentare i tassi, parlando appunto di settembre, dicembre o marzo del 2016, non serve solo a dimostrare al mercato che la decisione sarà presa sulla base dei dati oggettivi, quanto ad evitare comportamenti ingiustificatamente ottimisti in prossimità di una stretta. Ma, da quanto emerge dalle previsioni relative al 2016, la politica monetaria potrebbe restare accomodante ancora assai a lungo.

I NUMERI

Dai dati pubblicati contestualmente alla riunione della Fomc emerge in primo luogo un significativo peggioramento della crescita del pil statunitense nel 2015 rispetto alle stime di marzo: da un +2,3/2,7% del GDP si passa ad un +1,8/2%. Il brusco rallentamento nel primo trimestre dell’anno in corso non viene quindi recuperato, con una flessione compresa tra il -0,5% ed il -0,7%. La previsione sul tasso di disoccupazione peggiora a sua volta, anche se di poco, passando dal 5,0/5,2% di marzo al 5,2/5,3%. Non variano invece i dati relativi all’inflazione: +1,3/1,4% per la componente “core”, e +0,6/0,8% per quella complessiva, su cui influiscono i prezzi all’importazione ed i prodotti energetici: cifre distanti anni luce dal +2%.

I TASSI

Sulla base di questi dati, la Fed ha deciso di mantenere inalterato il tasso dei federal fund, nel range compreso tra lo 0% e lo 0,25°%, di continuare a reinvestire i rimborsi delle Mbs delle Agenzie federali immobiliari, e di rinnovare alle scadenze i titoli federali partecipando alle aste per le nuove emissioni. Da un anno a questa parte, la dimensione del bilancio della Fed è rimasta praticamente inalterata: gli asset complessivi ammontano a 4.468 miliardi di dollari, con una variazione positiva di appena 127 milioni di dollari rispetto ad un anno fa. Nel porfafoglio risultano 2.347 miliardi di dollari in titoli del Tesoro e 1.722 miliardi di Mbs, che rappresentano insieme il 91% degli attivi totali.

EFFETTO QE3

Con il Qe3 è stata immessa liquidità direttamente nell’economia reale, senza dover passare necessariamente per la creazione di nuovo credito bancario, e sono state assorbiti titoli derivanti dalla cartolarizzazione dei mutui immobiliari. L’acquisto dei titoli di Stato ha inoltre evitato che il sistema bancario americano dovesse farsi carico del finanziamento del deficit federale, lasciandolo libero di erogare credito all’economia reale.

LE DIFFERENZE CON FRANCOFORTE

E’ stata seguita una strategia diametralmente opposta a quella della Bce, che ha cercato di immettere liquidità solo attraverso il settore bancario, prima con le Ltro, poi con le T-Ltro ed infine con gli acquisti di CB e Abs decisi a settembre 2014. Tra l’altro, nei conti degli Agenti della Federal Reserve risultano ben 1.322 miliardi di dollari di titoli collaterali detenuti a fronte di un corrispondente ammontare di Federal Reserve notes: non solo la Fed non si mette a censire direttamente, come fa la Bce, i titoli privati da ammettere come collaterale per la liquidità del sistema bancario, ma usa le notes come succedaneo della moneta.

LE PREVISIONI DELLA FED

La Fed continuerà ad essere accomodante ancora a lungo: se per un verso riafferma che “i tassi verranno alzati solo quando avrà constatato ulteriori miglioramenti nel tasso di disoccupazione ed avrà la ragionevole fiducia che il tasso di inflazione si avvierà al 2% nel medio periodo”, le previsioni su disoccupazione ed inflazione indicano che l’orizzonte delle decisioni si colloca non prima della metà dell’anno prossimo: il tasso di disoccupazione è previsto in calo tra il 4,9% ed il 5,1% sia nel 2016 che nel 2017, mentre l’inflazione complessiva è prevista tra il +1,6/1,9% nel 2016, con una limatura di un decimo di punto in meno nelle nuove previsioni rispetto a quelle di marzo (+1,7/1,9%). Anche i dati dell’inflazione prevista nel 2016 militano per un rinvio ulteriore dell’aumento dei tassi, considerando che solo nel 2017 è previsto un range tra il +1,9/2,0%, stavolta con una leggerissima accelerazione di un decimo di punto rispetto a marzo (1,9/2,0%).

GLI EFFETTI PER L’EUROPA

Il lento passo dell’economia americana giova all’Europa: in questo momento, un decoupling dei tassi sarebbe fatale per l’euro. Lo spillover sull’euro di una decisione sull’aumento dei tassi di interesse sul dollaro è comunque un rischio razionale, inevitabile. Lo spillover sull’euro di un mancato accordo sugli aiuti alla Grecia è invece un rischio irrazionale, evitabile. Ma la irrazionalità, più della razionalità, è nella natura umana.

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