Riceviamo e volentieri pubblichiamo
Pur non conoscendosi ancora nel dettaglio le argomentazioni dei giudici costituzionali che il 24/06/2015 hanno stabilito lo “stop” al blocco dei rinnovi contrattuali del pubblico impiego (ma solo a far data dalla prossima pubblicazione della sentenza), si impongono alcune riflessioni.
I rinnovi contrattuali del pubblico sono bloccati dal 2010, per effetto inizialmente del d.l. 78/2010, convertito in legge 122/2010, ma il blocco iniziale voluto dal Governo Berlusconi-Tremonti a valere per il triennio 2010-2012 è stato poi prorogato dai Governi Monti, Letta e Renzi fino a tutto il 2015. E, dal 2014, non ha neppure più operato quella sorta di ammortizzatore sociale che è l’indennità di vacanza contrattuale, istituto che è destinato ad attutire gli effetti negativi dei ritardati rinnovi contrattuali.
La prima sorpresa è che la norma sul blocco delle procedure contrattuali e negoziali “senza possibilità di recupero” non sarebbe stata giudicata dalla Corte come illegittima fin dalla sua origine, ma lo sarebbe divenuta solo in ragione della eccessiva durata del blocco.
Quasi che fosse “normale” una intrusione legislativa di tale portata, quale che sia la sua durata, negli ambiti propri della competenza contrattuale, visto che il pubblico impiego è appunto “contrattualizzato”. Quasi che non fosse da sempre operante il principio costituzionale di cui all’art. 36 della Costituzione, che vuole la retribuzione “proporzionata alla quantità e qualità” del lavoro svolto ed in ogni caso “sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”.
Ora, tutti i principi anzidetti sono stati calpestati dal blocco della contrattazione per 6 anni consecutivi, associato al perdurante blocco del turn-over, e così i dipendenti pubblici hanno dovuto lavorare di più, con una retribuzione ridotta dall’inflazione, senza neppure la possibilità di individuare gli indispensabili aggiustamenti, sul piano economico e normativo e dell’organizzazione del lavoro, che solo la negoziazione tra le Parti può garantire.
Pertanto l’equilibrismo ed il relativismo ipocrita della sentenza in esame non può reggere.
Coloro che salutano come saggia ed equilibrata la sentenza in questione sulla fine (per il futuro) del blocco della contrattazione del pubblico impiego, lo fanno adducendo il fatto che una sentenza retroattiva (cioè dal 2010) avrebbe determinato “una grave violazione dell’equilibrio di bilancio”.
A tal proposito bisogna tuttavia ricordare:
– che, come ha notato Gustavo Zagrebelsky, l’equilibrio di bilancio non deve diventare un automatico lascia-passare al libero arbitrio della politica, quasi che il criterio contabile impostoci dall’Europa fosse in grado di schiacciare tutte le altre norme costituzionali sui diritti della persona, singola od associata;
– che, come ha notato Alessandro Criscuolo, che ha firmato la sentenza 70/2015 della Corte sulla illegittimità della mancata indicizzazione, nel biennio 2012-2013, delle pensioni oltre 3 volte il minimo INPS, non spetta alla Corte “realizzare” l’equilibrio di bilancio di cui all’art. 81 riformato della Costituzione, essendo evidentemente tale responsabilità, cioè perseguire un accettabile equilibrio tra entrate e spese di bilancio, compito pressoché esclusivo degli Organismi legislativi ed esecutivi dello Stato, nelle sue articolazioni;
– che, nonostante le norme illegittime sulla mancata indicizzazione delle pensioni e sul blocco dei rinnovi contrattuali del pubblico impiego, non è stato comunque realizzato in Italia né il pareggio di bilancio, né il più elastico “equilibrio tra entrate e spese” dello Stato;
– che, evidentemente, per moralizzare le politiche di bilancio non si possono fare regalie, pre-elettorali o non, sulla falsariga del bonus degli 80 €, ovvero rinviare la lotta alla corruzione, all’evasione, agli sprechi, ai privilegi, più in generale ai costi della politica (o, meglio, della mala-politica), che su tutti questi disvalori “campa” per recuperare clientele e finanziamenti illeciti.
Infine, alcune riflessioni vanno fatte sulla Corte costituzionale, sua composizione e modo di operare.
– Non è credibile una Corte i cui due terzi siano di nomina politica, cioè da parte del Presidente della Repubblica e del Parlamento. In tal modo i giudici non possono essere autonomi e liberi di decidere “secondo Costituzione”.
– La Carta costituzionale non può essere “interpretata” secondo i tempi, le mode, le convenienze, ma va semplicemente applicata nella lettera e nello spirito dei Costituenti. Non spetta al giudice delle leggi compiere mediazioni sul piano socio-economico, dirottare risorse in modo discrezionale o capriccioso, fare politica partitica, seguire ideologie preconcette, ecc., ma semplicemente dirimere con rigore le controversie relative alla legittimità costituzionale delle leggi, usando esclusivamente criteri ed argomentazioni di tipo giuridico.
– Quand’anche norme incostituzionali fossero in grado di contribuire al pareggio di bilancio, come potrebbero sfuggire alle censure di una Corte consapevole del proprio ruolo “terzo” rispetto a Governo e Parlamento?
– Come possono far parte della Corte costituzionale (per evidente incompatibilità) ex Ministri, o ex Presidenti del Consiglio, ecc., che sarebbe “miracoloso” poter accreditare come autonomi e liberi rispetto alle intimidazioni (o anche semplicemente ai suggerimenti) provenienti dal Palazzo di cui hanno fatto parte?
Per tutte le ragioni anzidette ritengo la sentenza assunta dalla Corte il 24/06/2015 sorprendente, intempestiva, contraddittoria, mentre ritengo gravemente illegittimo il d.l. 65/2015 del Governo, che disapplica totalmente la sentenza 70/2015 della Corte stessa (le cui decisioni – come è risaputo – non sono impugnabili), atti ascrivibili entrambi ad esercizio di cattiva politica, veri insulti a danno dei cittadini-lavoratori del pubblico impiego, come delle persone pensionate dopo una vita di lavoro.
Constato quindi che da Patria del diritto ci stiamo trasformando in Patria dell’abuso e che il singolo cittadino sta perdendo lo status di “persona” per assumere quello di “suddito privo di diritti”.
Pubblici dipendenti e pensionati del ceto medio possono ben definirsi “parte lesa” (con penalizzazioni retributive nette, negli ultimi 6 anni, almeno del 10-15%) e non mancheranno di far sentire prossimamente tutto il loro “peso”, non solo in termini di astensionismo elettorale.
Carlo Sizia, Comitato direttivo FEDER.S.P.eV.